18 aprile 2024
Aggiornato 23:00
Il modello Gran Bretagna

Brexit, in GB cresce l'occupazione. Intanto qui da noi svalutano sempre e solo il lavoro

La Brexit dimostra una cosa: la GB ha deciso di rompere la legge, dominante da quarant'anni in Occidente, che si debba svalutare il costo del lavoro per dare spinta alle esportazioni

Londra, simbolo di un Paese che ha scelto di dire «no» all'Europa e rivalutare il lavoro
Londra, simbolo di un Paese che ha scelto di dire «no» all'Europa e rivalutare il lavoro Foto: Shutterstock

LONDRA - Il primo ministro inglese, Theresa May, ha annunciato che a marzo entrerà nella fase operativa l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea: una decisione che nelle sedi europee si auspicava meno risoluta e con tempi più dilatati. La notizia non ha scosso i mercati finanziari, anzi la piazza di Londra ha avuto tre giorni di rialzi consecutivi. Si è invece svalutata la sterlina nei confronti di euro e dollaro, che ha raggiunto il minimo da trentuno anni. Il british pound è sceso a 1,2738 dollari, nuovo minimo dal 1985, e a 1,1405 euro, minimo dal 2013. Secondo alcuni analisti, il calo della valuta britannica potrebbe avvitarsi fino a quota 1.20 sul dollaro, e scatenare così una ormai dimenticata «guerra delle valute».

Crisi urbane, dove si legge la realtà: New York docet
La Gran Bretagna ha deciso pochi mesi fa di rompere la legge, dominante da quarant'anni in Occidente, che si debba svalutare il costo del lavoro per dare spinta alle esportazioni. Una teologia monetarista che ha conquistato gli Usa e l’Europa. Il processo, globale, ha portato in trent'anni alla fine della manifattura in Occidente. Le crisi urbane delle metropoli sono la caratteristica fisica di questo fenomeno. Iniziò New York negli anni Settanta, con una forte crisi debitoria curata con processi di espulsione e ghettizzazione, chiusura delle fabbriche e aumento della pressione fiscale. Estorcere tributi grazie a meccanismi finanziari è una vecchia pratica imperiale. L’attività della città venne portata avanti a porte chiuse, e fu centrata sulla competizione per il capitale di investimento proveniente dall’estero.

La libera concorrenza, l'esplorazione narcisistica del sé e l'individualismo imperante
Nacque la libera concorrenza tra le città, l’esplorazione narcisistica del sé e della sessualità, e l’individualismo divenne il paradigma che racchiudeva l’orizzonte della città più importante del mondo. Nessuna città come New York racconta questo processo. Parallelamente, la deindustrializzazione procedeva a tappe forzate, agganciata allo sviluppo dell’economia finanziaria e turistica. Il processo subito da New York si è ripetuto meccanicamente in tutte le grandi metropoli occidentali, che ancora si dibattono dentro crisi sociali insuperabili. L’Europa è riuscita a resistere meglio, perché le costituzioni post conflitto mondiale hanno creato una rete di protezione che ha ammortizzato la caduta «sul duro» della fine del settore manifatturiero. Torino non è Detroit, ovviamente, anche se si dibattono nello stesso meccanismo culturale. Ma di questo bisogna ringraziare coloro che hanno costruito l’impalcatura costituzionale del 1948. Dove non esiste il welfare state sul modello europeo, come a Detroit appunto, la crisi del settore manifatturiero è stata violenta, e per molti aspetti irreversibile.

Se la moneta non ha più possibilità di fluttuare, non rimane che svalutare il costo del lavoro
Il processo è ovviamente lungo e chiama in causa molteplici fattori, politici e monetari. L’apertura di mercati dove il costo del lavoro legittima la schiavitù, la possibilità di esportare capitale, la nascita di organizzazioni sovranazionali come il Wto e il rafforzamento di quelle già esistenti, hanno portato alla scelta tra svalutazione monetaria e svalutazione del lavoro. La prima, vista come un demone a causa della crisi degli anni Settanta che comportò anche stagnazione, è stata completamente abbandonata a favore di un regime di cambi fissi, che trova il suo apice ideologico nella moneta unica per eccellenza, l’euro. Se la moneta non ha più possibilità di fluttuare, non rimane quindi che svalutare il costo del lavoro. Ideologia che ha avuto pieno sviluppo ed ha portato alla situazione in essere. Non è chiaro, ancora oggi, perché l’operaio italiano debba competere con lo schiavo cinese, o tailandese, o vietnamita. Il processo, come sempre, è globale.

«L'epoca delle passioni tristi»
Il trasferimento del tessuto produttivo statunitense ed europeo in Asia ha portato indubbiamente alla perdita di potere d’acquisto, e quindi ad una sfiducia dilagante tra la popolazione, in particolare nella classe media, che per la prima volta vive quella che il sociologo Miguel Benasayag definisce «l’epoca delle passioni tristi». Il lavoro, almeno fino a quando la tecnologia imperante non lo avrà assorbito, c’è: ma è stato trasferito da un altro capo del mondo. Recentemente, in un illuminante articolo pubblicato su «La Stampa», si narravano le prodezze di un treno che parte dai lontani porti cinesi e arriva, dopo quindici giorni, a Rotterdam. Nel pezzo si poteva leggere: «Il treno parte pieno e torna indietro vuoto». Basta un giro nelle bancarelle dei mercati rionali italiani per capire che tutto ciò che finisce sul mercato italiano, e non solo, non viene prodotto in Italia. E basta un giro nei mercati asiatici per constatare, ovviamente, che non esiste alcun tipo di prodotto italiano in vendita da quelle parti. E esportando Ferrari e barolo non si fa molto. Così noi esportiamo capitale e importiamo immense quantità di robaccia di qualità infima. L’obiettivo di questo mega processo è equiparare il salario occidentale a quello asiatico che, si spera, dovrebbe salire sotto la pressione di rivendicazioni sociali. Oppure potrebbe non salire mai, dato che l’esercito di riserva vivente in Oriente è qualcosa di tendente ad infinito.

E poi c'è la regina di tutta l'Europa, sua maestà la Germania
A tutto questo si aggiunge la posizione dominante della Germania nella manifattura, dovuta a merito proprio e demerito nostro. Nei primi anni duemila, quando tutti potevano sfondare i parametri di Maastricht a piacimento, investì massicciamente sul miglioramento della qualità del prodotto tedesco e sull’abbassamento del costo di produzione mantenendo alta la rete del welfare. L’Italia in quel tempo non solo distruggeva la sua economia manifatturiera, ma sprecava soldi extra Maastricht in un'inconcludente spesa pubblica, come le grandi opere o i grandi eventi. Vedi Ponte sullo stretto o Olimpiadi (LEGGI ANCHE «Renzi e il Ponte sullo Stretto: un'altra promessa impossibile per portarsi a casa il 'sì' al referendum» e «Roma 2024: cari romani, due o tre cose che so, da torinese, sulle Olimpiadi»). Oggi la Germania ha una partita corrente che segna +8,9%, significa che esporta e il capitale che riceve non lo investe nella zona Ue. E quindi non rispetta la cosiddetta regola dell’export che pone il limite del surplus al 6%. Inutile criticare i tedeschi per questa situazione, potevamo farlo anche noi. Ma gli industriali italiani preferirono, e preferiscono, portare le aziende in Cina o in Vietnam. E parimenti, lo Stato continua a finanziare ogni tipo di greppia pubblica.

Svalutazione del lavoro
Non rimane, questo punto, che importare le condizioni di lavoro estere in Italia, quindi svalutare il lavoro. Accade ovunque, nel nostro paese come in Francia, Grecia, Spagna, e perfino negli Stati Uniti. In Italia subiamo tale processo massivamente: nel terzo trimestre del 2015, ad esempio, abbiamo battuto ogni record europeo con un calo dello 0,8%. Da ricondurre, dicono gli economisti, alla decontribuzione. A smentire questa visione un semplice dato: è la stessa componente salariale a scendere: dello 0,2%. A fronte di questi dati si pensi che il costo del lavoro è cresciuto in quasi tutti i paesi dell’est Europa, dove di fatto i salari sono irrisori, e in Germania del 2,1%. Il combinato fuga di capitali-Jobs Act (ultimo atto di un’ossessione tipica del centro sinistra riformista, iniziata con Prodi e Treu) sta portando alla fine della classe media, della piccola borghesia che teneva insieme la società. Con la presenza di inflazione indubbiamente, e di periodi di stagnazione. Ma nessuna crisi del Dopoguerra è minimamente paragonabile a quella attuale. Nei trent’anni che hanno preceduto il 2000, il tasso di crescita del Pil pro-capite è del 2,3%, nei primi anni duemila – drogati da deficit in presenza di regole di bilancio – del 3,5%. Oggi siamo dentro una perenne deflazione o stagnazione.

Brexit e la catastrofe mancata
In questo contesto giunge inaspettata dalla Gran Bretagna una buona notizia: a seguito della svalutazione della sterlina il settore manifatturiero sta avendo un’impressionante spinta. Lo riporta il quotidiano Guardian, solo due mesi fa contrario alla Brexit. Esattamente quanto ha fatto l’Italia dal 1946 ai primi anni duemila. La notizia traccia un quadro indubbiamente parziale e ancora non oggettivo, ma traccia un quadro, dà un segnale. La Brexit, nata per ragioni varie, sta creando delle esternalità positive sull’economia britannica, che potrebbe veder rilanciato il proprio settore manifatturiero (LEGGI ANCHE «La catastrofe mancata della Brexit sta per abbattersi sull’Italia. O no?»).