28 marzo 2024
Aggiornato 22:30
Crisi del debito

L'austerità tedesca perde colpi: le riforme (cioè i tagli e le privatizzazioni) non convincono più

Dopo anni di decrescita (infelice) l'Italia si ribella al dogma dell'austerità della dispotica Germania e al suo significato reale: i tagli. L'attacco al debito esige innanzitutto la crescita e per ottenerla la strada passa per una pesante politica keynesiana

Un murales con l'immagine di Angela Merkel, regina indiscussa di questa Europa unita
Un murales con l'immagine di Angela Merkel, regina indiscussa di questa Europa unita Foto: Shutterstock

ROMA - C’è stato un tempo, non lontano, in cui la teoria tedesca dell’austerità era la ricetta accolta con entusiasmo da tutti i governi europei. Divenuta egemonica grazie alla moneta unica nel 2001, negli anni antecedenti aveva dimostrato a livello teorico la sua potenza. I famosi parametri di Maastricht, relativi al rapporto deficit-Pil, parevano lontani esami che mai si sarebbero presentati. Poi, quando la teoria ha lasciato il posto alla materia, gravi problemi economici si sono manifestati. La teoria dell’austerità è semplice e brutale: lo Stato non deve fare deficit, mai. Il debito pubblico deve essere basso, ovvero il 60% dell’ammontare annuale di ogni paese. Un visione messianica, sicuramente morale, più che economica: il debito/deficit è visto come vulnus nell’etica degli stati e delle comunità. Una visione tipicamente protestante. La superiorità che la Germania avoca a sé, come già fatto in passato, non è solo economica, è morale. Gli indebitati sono corrotti e rispetto costoro si devono ridurre, come forma punitiva, libertà e democrazia in misura dello spread sui titoli decennali.

Dopo anni di decrescita (infelice) l'Italia si ribella
Non a caso debito e moneta unica nascono «insieme»: come teorizza l’antropologo Davide Graeber: mercati, moneta e debito vengono creati dagli stati che tassano i sudditi per finanziare nuove guerre. E la politica tedesca è inquadrata sempre più come una politica di conquista di mercati e risorse. Quando ci sono le crisi cicliche del capitalismo, secondo i teorici della austerità progressiva, il meccanismo si autoregola: fasi con politiche espansive keynesiane sono dannose. Quindi se lo Stato non riesce ad essere austero deve privatizzare il suo patrimonio pubblico nonché i settori che ancora ad esso afferiscono: le famose riforme. Dopo anni, anzi lustri, di decrescita (infelice) economica e crescita del debito pubblico, nonostante le privatizzazioni, le riforme e i tagli, il mondo intellettuale italiano prova a ribellarsi ad un ideologia che rende egemonica solamente la Germania, grazie ad un reiterato surplus commerciale.

L'austerità e il suo significato reale: i tagli (quando ad opporsi era Craxi)
Molti anni fa, un presidente del Consiglio con infiniti difetti, posto a capo di un sistema moralmente corrotto, denunciò la fallacia dell’austerità, e denunciò i parametri di Maastricht che avrebbero reso l’Europa «nel caso migliore un limbo, nel caso peggiore un inferno». Si chiamava Bettino Craxi. Oggi, che di Craxi non abbiamo il coraggio di ricordare la visione politica e ci limitiamo a quella morale, scopriamo che molti, moltissimi contestano l’ideologia dell’austerità. Dopo averla decantata per lustri, ovviamente. Non è ancora una valutazione equilibrata del concetto di «debito», che rimane un demone da domare ad ogni costo. Sono gli strumenti con cui contrastarlo ad essere oggetto di discussione. Per molti anni l’austerità ha avuto un solo significato reale: tagli. La stessa parola contiene il significato.

L'attacco al debito esige la crescita
Recentemente sul Sole 24 ore la Fondazione Hume ha pubblicato il suo annuale rapporto sui conti pubblici. Il titolo in sé denota una cambio semantico agognato da tempo: «L’attacco al debito esige crescita». Il debito pubblico rimane sempre da «attaccare», ma per farlo è necessario «crescere». Come? «Sostenendo la domanda interna (spesa pubblica,ndr), disinnescando la mina della clausole di salvaguardia, e rilanciando una coraggiosa spending review per incoraggiare tagli permanenti alla pressione fiscale». Questo ultimo punto dovrebbe rassicurare i falchi tedeschi che invitano l’Italia a non «abusare» della flessibilità. Si conferma ideologicamente che attraverso il taglio delle spese dello stato, cioè la privatizzazione dei servizi perché tutto il resto – i famosi risparmi - sono spiccioli, si può abbassare la pressione fiscale.

La lotta al debito? Una fatica di Sisifo
Tale visione, che ricorda la teoria della percolazione della ricchezza, si schianta inesorabilmente con l’attuale sistema fiscale che non incentiva i consumi della classe media, ma tende a creare accumulazione di ricchezza regressiva, che, come noto, ha una propensione al consumo rigida. E’ poi dubbio che l’alleggerimento fiscale, anche sulla classe media, possa da solo sostenere una ripresa dei consumi. Secondo la maggior parte degli economisti classici, è necessaria, in ogni caso una pesante politica keynesiana, soprattutto nei momenti di fiacca ciclica del capitalismo. Luca Ricolfi, economista ed editorialista del Sole 24 ore, bolla la lotta al debito come «una fatica di Sisifo». Per lui il deficit pubblico annuale può essere uno strumento per contenere il debito pubblico. Anche perché, par di capire, il problema è prossimo venturo per l’Italia. Perché nonostante i tagli degli ultimi anni, il debito continua a salire, e così il deficit. In particolare grosse difficoltà sono previste sia per l’anno in corso che per quello futuro, quando la crescita risulterà ancora più asfittica che negli anni passati. Da un punto di vista economico contestare il deficit annuale, che può essere sforato per sostenere la crescita, è contestare il debito pubblico e la sua incessante corsa. Ma questa, ovviamente, è una posizione troppo impegnativa da avanzare.