26 aprile 2024
Aggiornato 06:30
Chi ha paura di Trump?

Perché la finanza ha paura di Donald Trump

Mentre la Clinton rassicura la finanza internazionale, Trump potrebbe portare a un bello scossone: a partire dalle sue scelte protezionistiche in materia economica

Il candidato repubblicano alla Casa Bianca Donald Trump
Il candidato repubblicano alla Casa Bianca Donald Trump Foto: Shutterstock

WASHINGTON - L'ha spuntata Hillary Clinton. Così decretano i media globali dopo le sfide tra i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Ciò che interessa analizzare, tuttavia, è la reazione dei mercati azionari al primo duello Clinton-Trump, termometro che misura in forma più oggettiva quanto accaduto. Le piazze finanziarie sono state per giorni in netto calo, soprattutto quelle europee. Calo che, curiosamente, viene snobbato dai media. Non di meno Wall Street, che ha incamerato due sedute negative successive. Ancora una volta a scendere, trascinando così un po’ tutti i titoli, è il settore bancario. In una settimana le borse hanno perso mediamente il 3%.

Hillary rassicura la finanza
Una vittoria di Hillary Clinton nel confronto elettorale doveva ridare fiato al settore finanziario, vicino ai candidati democratici del tempo di Bill Clinton, padre delle riforme che hanno liberalizzato il settore. Nel suo programma non ci sono punti potenzialmente minacciosi per la grande finanza. Il grande pericolo era rappresentato da Barack Obama, che ha governato durante la disastrosa crisi finanziaria del 2008, che alla recessione ha dato una risposta lineare: non è intervenuto sulle cause che gonfiano immense bolle finanziarie, ma ha falciato il costo del lavoro fino a rendere il manifatturiero Usa quasi concorrenziale, come costo del lavoro, almeno per quanto concerne i mini jobs, con quello asiatico.

Cosa vuole fare Trump per l'economia americana
Per canto suo, il candidato repubblicano, non si può considerare un progressista. È un repubblicano tradizionale ma molto diverso da Reagan, ad esempio. La sua idea è quella di abbassare le tasse ai ricchi ulteriormente. Un classico repubblicano, quindi. Per le aziende Trump prevede un dimezzamento delle aliquote, che passerebbero dal 35% al 15%. Aliquota in parte farlocca perché già oggi le opportunità per non pagare tasse attraverso scappatoie legislative sono solide, e sfruttate. Vorrebbe poi eliminare l’imposta di successione, oggi al 40% sui patrimoni individuali superiori ai 5,5 milioni di dollari. Le sette aliquote fiscali vigenti negli Usa si ridurrebbero a tre: 10, 20 e 25%. Ben oltre la cosiddetta «flat tax».

La finanza spaventata dal protezionismo di Trump
Questo non è propriamente un programma fiscale in grado di spaventare i mercati. Ciò che impaurisce la finanza è il protezionismo del candidato repubblicano. Christine Lagarde è la presidente del Fmi, e anche se si sente in cuor suo una paladina degli oppressi non si può inquadrare come un’amica dei poveri. Il nove luglio ha dichiarato: «La presidenza Trump potrebbe provocare ulteriore instabilità, come quella provocata dalla Brexit». In realtà tale «instabilità» è stata già assorbita (LEGGI ANCHE "LA CATASTROFE MANCATA DELLA BREXIT STA PER ABBATTERSI SULL'ITALIA. O NO?") e, dopo tre mesi, si può dire con ragionevole certezza che i terremoti finanziari post Brexit furono una manipolazione per incutere timore all’opinione pubblica.

Trump potrebbe fermare la delocalizzazione, e non solo in America
Christine Lagarde però ha ben compreso che il protezionismo di Trump è una sorta di struttura da cui deriva la successiva impalcatura economica e fiscale. In sintesi: le barriere doganali fungono in sé quale redistributore della ricchezza. Perché allentano la fuga di capitale verso l’Asia e spingono il settore manifatturiero a investire nel mercato interno. E’ sotto gli occhi di tutto il mondo che la crisi mondiale – che ovunque ha gli stessi sintomi: deflazione, crisi dei consumi, regressione distributiva della ricchezza e crollo dei salari – è dovuta alla progressiva e inesorabile delocalizzazione produttiva. Trump, lasciamo perdere le forme istrioniche e farsesche del personaggio e limitiamoci al messaggio economico, rischia di porre fine a questo percorso ormai quarantennale. Avversare il Ttip, nonché il trattato transpacifico, è avversare l’inesorabile smontaggio dei macchinari e delle fabbriche Usa. E provocare un effetto a catena globale. Il capitale, per essere «produttivo» negli Usa, verrebbe costretto a incardinarsi nuovamente con il lavoro.

Le aziende Usa torneranno a produrre negli Usa?
Per Wall Street risulta quindi ininfluente la promessa di ulteriori abbassamenti delle tasse, scandalosi per altro. Perché verrebbe a mancare la leva che genera immensi profitti ad azionisti e Ceo. Estremizzando, si può dire che il programma di Trump prevede la possibilità che la Apple produca i suoi oggetti non dagli schiavi cinesi, ma dagli operai statunitensi. Il che ridurrebbe il margine di profitto degli azionisti, ricaricando la classe media. Il prezzo del prodotto rimarrebbe uguale.

I mercati finanziari corrono ai ripari
La Clinton sostiene che la tassazione negli Usa debba rimanere tale – come Obama non ha la forza di affrontare i vantaggi offerti da Bush ai mega miliardari, e nemmeno ai banchieri – ma svicola dalla spinta protezionista di Trump. A parole, anche lei, ha dovuto cedere, perché la classe media bianca statunitense è ormai cosciente delle ragioni che la stanno portando a proletarizzarsi. Ma, in ogni caso, la Clinton risulta molto più tenera del candidato repubblicano. In linea teorica potrebbe anche proporre di triplicare le tasse a banchieri e grande Ceo, ma sarebbe ininfluente. Non a caso, proprio nel giorno dopo il duello Clinton-Trump, i mercati azionari sono ulteriormente in ribasso. Nonostante il saluto, molto simile ad un auspicio, di molti media che titolavano: «Vince la Clinton, il mercato rimbalza». I mercati finanziari non hanno visto la vittoria della Clinton, e temono molto la politica di Trump: prima ipotesi. Seconda: i mercati finanziari temono entrambi. Perché entrambi stanno «subendo» la pressione politica della classe media che non vuole più soggiacere alla visione ideologica di Wall Stret.