24 aprile 2024
Aggiornato 09:00
Paradisi fiscali in Ue

W l'Unione europea: ecco i 4 paradisi fiscali che strizzano l'occhio alle multinazionali (e danneggiano gli Stati vicini)

Le banche europee registrano oltre un quarto dei loro profitti nei paradisi fiscali, ma tra quelli più aggressivi ci sono ben quattro paesi dell'Unione europea, che esercitano forme di concorrenza sleale verso gli altri stati membri

Il presidente della BCE, Mario Draghi.
Il presidente della BCE, Mario Draghi. Foto: ANSA

ROMA – Tra i quindici paradisi fiscali societari più aggressivi del mondo ci sono ben quattro paesi «insospettabili» membri dell'Unione europea. Le istituzioni comunitarie, pur predicando la lotta all'elusione e all'evasione fiscale che sublima i capitali continentali trasferendoli al di fuori dei confini europei, non si sono impegnate con la stessa solerzia a combattere i paradisi fiscali che invece prolificano all'interno di essi.

Le banche europee scelgono i paradisi fiscali
Uno studio appena pubblicato dall'organizzazione britannica Oxfam rileva che le venti maggiori banche europee registrano oltre un quarto dei loro profitti nei paradisi fiscali. Nel 2015 sono stati sottratti al Fisco in questo modo 27 miliardi di dollari (pari a circa 25 miliardi di euro). Una cifra monstre che potrebbe essere utilizzata dai governi nazionali per far quadrare i bilanci pubblici e ridurre le tasse che gravano sui cittadini. Ma che invece finisce per favorire in maniera sleale alcune amministrazioni fiscali straniere piuttosto celebri, come le Bermuda e le Isole Cayman. Ma, a sorpresa, nella lista dei quindici paradisi fiscali societari più aggressivi del mondo ci sono anche quattro paesi «insospettabili», perché aderenti all'Unione europea e all'euro.

I paradisi fiscali dell'Unione europea
Questa graduatoria dei quindici paradisi fiscali più aggressivi del mondo è stata anch'essa stilata da Oxfam, è datata 12 dicembre 2016 e tiene conto di alcuni criteri quali: l’aliquota sui redditi societari, gli incentivi fiscali disponibili e la carenza di cooperazione internazionale in materia di contrasto all’elusione fiscale. Nella lista troviamo paradisi fiscali molto noti come Montecarlo e la Svizzera, ma al terzo posto c'è l’Olanda, al sesto posto l'Irlanda, al settimo il Lussemburgo e al decimo posto Cipro: quattro paesi dell'Unione europea. Il che dimostra che le istituzioni comunitarie non si sono prodigate abbastanza per combattere il fenomeno «paradiso societario» dentro i confini Ue.

L'asta fiscale al ribasso e il ruling internazionale
Anzi, l'asta fiscale al ribasso tra i paesi membri si nutre di una pratica sempre più diffusa, quella del ruling internazionale. Si tratta della stipula di accordi preventivi riservati fra le multinazionali e l’amministrazione finanziaria ospitante che consente di concordare aliquote fiscali vantaggiose che, come sottolinea Leopoldo Nascia su Sbilanciamoci.info, sono de facto forme di concorrenza sleale esercitate contro gli interessi degli altri paesi membri. Basta ricordare i recenti scandali finanziari che hanno coinvolto Cipro e l'Irlanda con la Apple. Tuttavia, ciò che fa maggiormente riflettere è che non sono solo le multinazionali, che scelgono condotte da free rider per usufruire delle agevolazioni fiscali dei paradisi fiscali, a danneggiare i bilanci pubblici dei paesi membri.

Le conseguenze della mancata armonizzazione fiscale
Sono gli stessi paesi membri dell'Ue, evidentemente, a farsi la guerra tra loro per attrarre quanti più capitali possibile a spese dello Stato vicino. Nell'Unione europea vale ancora la logica egoistica dell'homo homini lupus che Thomas Hobbes attribuiva allo stato di natura dell'essere umano. Siamo molto lontani dall'Unione dei popoli e degli Stati che vorremmo vedere sul nostro continente. E il prezzo politico di una mancata armonizzazione fiscale si declina in una serie di conseguenze nefaste per le singole economie e politiche nazionali come l'aumento delle diseguaglianze sociali, le differenze nei tassi di crescita, l'incancrenirsi dei sentimenti negativi dei popoli europei verso le istituzioni comunitarie che dovrebbero rappresentarli, ma che - evidentemente - non riescono o non vogliono dar voce ai loro diritti.