29 marzo 2024
Aggiornato 10:00
Le quattro tegole sulla testa del PD

Perché Matteo Renzi dovrebbe dimettersi dal governo

A Massimo D'Alema bastò la sconfitta nelle regionali per gettare la spugna. Lui ha anche una maggioranza sempre più risicata, un riformismo bloccato e Mafia capitale. Cos'altro gli serve per riconoscere il fallimento?

ROMA – Ci sono almeno quattro buoni motivi per cui Matteo Renzi potrebbe, anzi dovrebbe, rassegnare le sue dimissioni a Sergio Mattarella. Il primo, ci sia consentito l'ardire, sono addirittura le ultime elezioni. È vero che in Italia, da tre governi a questa parte, i voti non vanno più di moda e le urne sono diventate una trascurabile quisquilia. Eppure un premier che aveva costruito la sua immagine da vincente (e, francamente, anche un po' da bulletto di periferia) sul 40% alle europee dell'anno scorso non può far finta di nulla di fronte alla bocciatura così sonora ricevuta dagli italiani. Il consenso quasi dimezzato nell'arco di dodici mesi e il sostanziale pareggio con il centrodestra (sia in termini percentuali che di Regioni, visto che il Pd si è limitato a confermare lo stesso numero di amministrazioni uscenti) non gli consentono più di fare la voce grossa: molto più onesto sarebbe tornare al voto e far decidere agli elettori, una volta tanto, se debba essere ancora lui a guidare il governo.

Appeso a un filo
Il secondo motivo è la situazione venutasi a creare in parlamento. Onestamente, lo strappo di Bersani, Fassina & Co sembra oggi più lontano: la scoppola ricevuta alle regionali ha costretto infatti il segretario al dietrofront sul suo progetto di partito turbo-renziano. Anzi, alla direzione del Pd di ieri per la prima volta abbiamo assistito ad un Renzi dialogante, disposto perfino a trattare con quella minoranza che per mesi aveva preso solo a schiaffi. Eppure, nel resto della coalizione è già partita la corsa ad abbandonare la nave. Lo ha già fatto lo sparuto gruppo dei Popolari per l'Italia dell'ex ministro Mario Mauro (poco numeroso ma cruciale in Senato, dove la maggioranza non è per nulla solida nei numeri), e minaccia di farlo anche un bel pezzo del Nuovo Centro Destra, quello che valuta l'adesione ai Repubblicani della dissidente Nunzia De Girolamo. In breve, il premier potrebbe ritrovarsi a governare solo grazie al soccorso azzurro dei verdiniani, nel ruolo di novelli Scilipoti. Bell'affare.

Improduttivo
Il terzo motivo è l'azione del governo sulle riforme, rivelatasi in quest'ultimo anno quantomeno stitica. La montagna degli annunci ha partorito un topolino: a parte le fumisterie dell'Italicum, del Senato e delle Province, si sono visti solo due interventi degni di nota. Il primo, la cosiddetta «buona scuola» (fra molte virgolette) è riuscito nel «capolavoro di far arrabbiare tutti», come Renzi stesso ha riconosciuto in un insolito rigurgito di autocritica alla festa di Repubblica a Genova. Il secondo, il jobs act, è stato semplicemente inutile: al di là di tutti dati su cui si possa arrampicare il governo, la realtà è che l'Italia resta ventunesima in Europa come calo della disoccupazione. In pratica, nel nostro Paese sarà anche scesa dello 0,1%, peccato che nella media del resto del Continente si sia abbassata dello 0,6%, secondo Eurostat. Come a dire che non siamo riusciti nemmeno ad agganciare la ripresa degli altri. E poi, ovviamente, c'è il quarto motivo: Mafia Capitale, che sta facendo strage di piddini tra arrestati e indagati.

Incollato alla poltrona
Renzi è riuscito a derubricare tutto questo popò di roba come un semplice «campanello d’allarme»: un fenomenale esercizio di understatement. Eppure l'odiato e rottamato Massimo D'Alema diede le dimissioni da capo del governo nel 2000 per molto meno: bastò la sconfitta alle elezioni regionali. E meno male che Baffino era quello attaccato alla poltrona. Se davvero credesse ai dettami della nuova politica che professa, Matteo oggi dovrebbe seguire il suo esempio. Ma non lo farà, e per un solo, ottimo motivo: se si tornasse a votare oggi, nemmeno la legge elettorale che si è cucito su misura basterebbe a garantirgli una vittoria sicura.