23 aprile 2024
Aggiornato 14:30
Solo L'Eni è rimasta sul tormentato campo libico

Crisi Russia e Libia: l'Italia rischia di restare a secco?

Un comunicato odierno della libica National oil company ha fatto destare preoccupazioni per gli approvvigionamenti energetici italiani. La compagnia ha avvertito che il prolungarsi della crisi nel Paese potrebbe imporre un completo stop della produzione «in tutti i settori». Un pericolo per il gasdotto Greenstream da cui importiamo il 9,2% del fabbisogno di metano

ROMA – Un comunicato odierno della libica National oil company (Noc), diffuso dal portavoce Mohamed Harari, ha fatto destare qualche preoccupazione per gli approvvigionamenti energetici italiani. La compagnia petrolifera ha messo in guardia i suoi clienti (sul campo è rimasta solo l'Eni, mentre hanno lasciato la Libia la francese Total, la spagnola Respol, la British Petroleum, ExxonMobil e la cinese Cncp) sul fatto che il prolungarsi della crisi nel Paese potrebbe imporre un completo stop della produzione «in tutti i settori». La Noc ha spiegato che questa misura servirebbe a «salvare la vita dei dipendenti», dopo l'ennesimo attentato alle sue infrastrutture di sabato scorso, a Sarir, nell'Est del Paese. Uno scenario che rilancerebbe il ruolo della Russia come fornitore energetico senza vere alternative per il Vecchio continente. L'Unione europea però oggi ha inasprito le sanzioni contro Mosca, nonostante sia stato raggiunto un accordo per il cessate-il-fuoco scattato per l'Est dell'Ucraina. Il Cremlino dal canto suo ha fatto sapere che risponderà «in modo appropriato» a queste decisioni «inconsistenti e illogiche».

LE PARTI IN CAMPO - Semplificando al massimo, in Libia si contrappongono due fazioni. Da una parte c'è il governo riconosciuto dall'Occidente, guidato dal premier Abdullah al Thani, che è stato eletto il 25 giugno 2014 (tasso di affluenza del 18,52%). Questo esecutivo gode dell'appoggio internazionale di Francia, Egitto (che oggi ha bombardato ripetutamente la Libia, in risposta all'uccisione di 21 cristiani copti rivendicata dall'Isis) e Arabia saudita. Inoltre il «parlamento di Tobrouck» è sostenuto indirettamente dagli Usa tramite il generale Khalifa Haftar, che dopo il fallito colpo di Stato di un anno fa ha deciso di appoggiare le forze che controllano parte della Cirenaica. Dall'altra parte, in Tripolitania dove l'Italia aveva aperta la sua ambasciata fino a venerdì scorso, troviamo il nuovo General National Congress dominato dalla Fratellanza musulmana, con legami con Turchia e Qatar. Il capo militare di questa fazione è Salah Badi, che guida la milizia Fajr, giunta a controllare Tripoli dalla sua roccaforte di Misurata.

L'ENI IN LIBIA - Non è un caso che Roma abbia mantenuto la propria rappresentanza diplomatica a Tripoli, nonostante la guerra civile. In Libia da più di 50 anni è presente l'Eni con il suo stabilimento più importante nell'Ovest, a Mellitah dove ha sede un grosso impianto di estrazione di gas e petrolio. Dal Paese l'Italia importa il 9,2 per cento del proprio fabbisogno di metano, pari a 5,705 miliardi di metri cubi, secondo gli ultimi dati forniti dal ministero dello Sviluppo, relativi al 2013. Lo Stato nord-africano è il nostro terzo fornitore di gas, preceduto da Russia (45,3%, 28,073 miliardi di metri cubi) e Algeria (20,2%, 12,518 miliardi di metri cubi). Da Mellitah parte infatti il gasdotto sottomarino Greenstream (75% in mano a Eni, 25% alla libica Noc), che sbocca a Gela, in Sicilia. Da questa infrastruttura transita anche il metano che importiamo dalla Tunisia. Per l'Eni la guerra intestina nel Paese non ha destato grande preoccupazione. Nel 2014, anno in cui è esploso il conflitto tra le due regioni, la produzione petrolifera libica è risalita da 2/300 mila barili di petrolio al giorno a 900 mila barili, quantità del tutto simili a quelle estratte quando il Paese era sotto il controllo di Muammar Gheddafi. L'Italia nel 2014 ne ha importati 398mila 580, il 6,1 per cento sul totale. Anche oggi che gran parte dei residenti italiani in Libia è stata rimpatriata il cane a sei zampe ha voluto rassicurare sulla sicurezza dei propri dipendenti: «La presenza di espatriati Eni in Libia è ridotta e limitata ad alcuni siti operativi offshore, garantendo in collaborazione con le risorse locali lo svolgimento regolare delle attività produttive nell'ambito dei massimi standard di sicurezza», ha riferito nei giorni scorsi un portavoce ad AnsaMed. «Eni continua a monitorare con estrema attenzione l'evolversi della situazione», hanno sottolineato dalla società petrolifera.

RENZI FA MARCIA INDIETRO - Intanto passato il week-end, il premier Matteo Renzi ha fatto una vera e propria retromarcia sul dossier libico. «Non è il tempo dell’intervento, verificheremo che cosa ci sarà da fare, se ci sarà una guida delle Nazioni unite più forte sarà meglio per tutti», ha detto il presidente del Consiglio intervistato dal Tg5. Renzi ha poi aggiunto: «La visione del governo è una sola e tutti i ministri la condividono: aspettare che il Consiglio di sicurezza dell’Onu lavori un po’ più convintamente sulla Libia».

GLI ANNUNCI BELLICOSI ITALIANI - La settimana scorsa era stato lui stesso a prospettare un'intervento armato nel Paese nord-africano al Consiglio europeo, che essendo molto più concentrato sulla caldissima situazione in Ucraina, aveva di fatto snobbato le parole del primo ministro italiano. L'offensiva di annunci italiana era proseguita con l'allarme del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, che rinunciando a qualsiasi diplomatismo aveva annunciato: «L'Italia è pronta a combattere. Non possiamo accettare che a poche ore di navigazione dall'Italia ci sia una minaccia terroristica attiva». Molto più cauta la ministra della Difesa, Roberta Pinotti, che intervistata dal Messaggero aveva spiegato che «se in Afghanistan abbiamo mandato fino a 5mila uomini in un Paese come la Libia che ci riguarda molto più da vicino e in cui il rischio di deterioramento è molto più preoccupante per l’Italia, la nostra missione può essere significativa e impegnativa, anche numericamente». In ogni caso, aveva sottolineato Pinotti «stiamo parlando di ipotesi, non c’è alcuna decisione», perché «ogni decisione e passaggio verrà fatto in Parlamento». Comunque la titolare della Difesa non aveva escluso un intervento italiano: «L’Italia immagina d’avere un ruolo di leadership in Libia come l’abbiamo avuto in Libano, per motivi geografici, economici, storici. Mezzi, composizione e regole d’ingaggio li decideremo con gli alleati in base allo spirito e al mandato della missione Onu».

ANDARE IN LIBIA A FARE LA PACE O LA GUERRA? - La missione Onu immaginata dall'Italia dovrebbe operare nell’ambito del Capitolo VI del Trattato delle Nazioni unite, dove vengono disciplinate le missioni di peace keeping. In base alla Carta si possono dispiegare forze militari internazionali per preservare un accordo di pace fra le parti, cosa che in Libia non è ancora avvenuta. Altrimenti se si volesse portare avanti un'operazione di peace enforcing, che rientra sotto il Capitolo VII, l'Italia avrebbe qualche problema di legittimità. Infatti in quel caso si tratterebbe di un'azione di guerra vera e propria, che secondo l'articolo 11 della nostra Costituzione «l'Italia ripudia come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

PRODI, SERVE OFFENSIVA DIPLOMATICA - Bisogna ricordare che la Libia non ci ha attaccati, né ha i mezzi, le capacità e l'interesse a farlo. Come ha spiegato il presidente del Gruppo di lavoro Onu-Unione Africana sulle missioni di peacekeeping in Africa, Romano Prodi, intervistato dal Fatto quotidiano, la Libia «è un Paese ridotto a essere senza alcuna disciplina, senza controllo, senza alcuna forma di statualità, dove i commercianti di uomini imperversano buttando a mare i disperati che sognano una vita migliore in Europa». Nei giorni scorsi inoltre Prodi aveva detto: «In Libia l’emergenza deve essere risolta obbligando tutte le rappresentanze a sedersi a un tavolo allargato. Un’offensiva diplomatica che deve essere facilitata dal ruolo di Paesi esterni».