19 aprile 2024
Aggiornato 14:30
La cosiddetta «rivolta dei coltelli»

La «Terza Intifada» che sta insanguinando il Medio Oriente

La nuova ondata di violenze che sta lacerando la Terra Santa ha una natura molto diversa dalla cosiddetta «Seconda Intifada». Una natura che la rende, per Israele, ben più difficile da estirpare, soprattutto con le maniere forti

GERUSALEMME – Era da tanto che la Terra Santa non si trovava così gravemente dilaniata e lacerata dalle violenze, al punto da spingere analisti e media a parlare di una «nuova Intifada». La «Terza Intifada» è stata invocata più volte: prima l’estate dello scorso anno, quando giovani estremisti di entrambe le parti hanno macchiato di sangue le strade di Gerusalemme, e poi nelle ultime settimane, con quella che viene chiamata «l’Intifada di al-Quds», che ha già seminato, dall’inizio di ottobre, decine di morti e feriti da entrambe le parti. Le notizie delle violenze si rincorrono incessantemente nei notiziari del pianeta, ma, da lontano, è difficile comprendere davvero ciò che sta accadendo. Perché quella «rivolta dei coltelli» che sta macchiando di sangue la Cisgiordania non è semplicemente una «Intifada»: è qualcosa di ben più grave e drammatico.

Il casus belli
Il nuovo ciclo di violenze avrebbe avuto origine – a sentire le accuse ufficiali palestinesi – dalla violazione israeliana dell’accordo del 1967 che sancisce i rapporti alla Spianata delle Moschee tra le autorità musulmane e gli israeliani, proibendo qualsiasi attività di preghiera non legata alla religione islamica. Secondo i palestinesi, il governo di Benjamin Netanyahu starebbe facilitando l’ingresso alla Spianata agli ebrei, perché in quel luogo, un tempo, si innalzava il Tempio ebraico di Gerusalemme. Ma la Spianata è un luogo fondamentale anche per la religione musulmana, dato che proprio lì, dall’VIII secolo d.C., sorgono il santuario della Cupola della Roccia e la Moschea di al-Aqsa (quest’ultima considerata il terzo luogo più sacro per l’Islam dopo Mecca e Medina). E benchè Netanyahu abbia più volte e con forza negato le accuse, è innegabile che, negli ultimi anni, siano aumentate le visite con scorta armata di ebrei e rappresentanti della destra religiosa israeliana.

La risposta di Israele
Di qui, la serie di violenze scatenatesi negli ultimi tempi, accompagnate dagli appelli di Hamas a colpire indiscriminatamente gli ebrei per la liberazione di al-Aqsa, di al-Quds e di tutta la Palestina. Così, da quando il presidente Abbas, all’assemblea generale Onu a New York dello scorso 30 settembre, ha denunciato la violazione dello status quo e ha dichiarato la sospensione degli accordi di Oslo, la violenza si è ulteriormente esacerbata. La risposta del premier israeliano non si è fatta attendere: Netanjahu ha immediatamente chiamato alle armi una parte dei riservisti, rafforzato i pattugliamenti in Cisgiordania e affiancato i soldati alla polizia nelle aree israeliane a maggioranza araba. A Gerusalemme Est sono stati imposti nuovi posti di blocco. Non solo: Israele ha impiegato misure decisamente controproducenti per limitare gli attacchi: come la demolizione delle case degli attentatori e le esecuzioni extra-giudiziali dei terroristi sul luogo dell’attacco. Quest’ultima misura risulta eccessiva specialmente nei casi in cui l’attentatore sia armato di coltello, e dunque facilmente neutralizzabile con metodi non letali.

La generazione del Muro
Ma la cosa più preoccupante è la natura quasi inedita della cosiddetta «Terza Intifada», sintomo di una frattura ormai profondissima, difficilmente sanabile, tra le due etnie che si contendono la Terra santa. Perché se durante la Seconda Intifada gli attentati terroristici erano pianificati, realizzati da gruppi armati appartenenti ad Hamas, Jihad Islamica e Fatah e subito rivendicati, quelli che caratterizzano l’attuale ondata di violenze sono spesso azioni spontanee, non manovrate da alcuna affiliazione terroristica. La violenza, insomma, non è più limitata ai terroristi «di professione», ma diventa l’unica  arma con cui la nuova generazione di palestinesi si sente in grado di esprimere la propria frustrazione. Questa generazione è la generazione del Muro, del post-accordi di Oslo, nata e cresciuta a stretto contatto con le angherie dei coloni, i check-point, il gap socio-economico con Israele e l’odiosa barriera che attraversa la loro terra. Questi nuovi attentatori sono lupi solitari «a contagio», guidati dalla disperazione di chi vede ormai impossibile la risoluzione del conflitto: la soluzione dei due Stati non è percorribile, non solo perché la colonizzazione israeliana non si ferma, ma anche perché la rifiuta Hamas. Così, Israele si trova disorientato: perché questa volta non ci sono organizzazioni terroristiche da infiltrare, indebolire e sconfiggere militarmente; questa volta non c’è Hamas da neutralizzare e Abu Mazen da delegittimare. Questa volta ad armare la mano dei palestinesi non ci sono «burattinai del terrore», ma principalmente la disperazione. E quella, anche a fronte di una comunità internazionale del tutto inadeguata a intervenire efficacemente, è decisamente più dura da sconfiggere. Soprattutto con le maniere forti.