23 aprile 2024
Aggiornato 12:30
Mentre Putin diventa protagonista

Le 4 ragioni del fallimento di Obama in Siria

L'immobilismo dimostrato di fronte alla crisi siriana è una bella macchia sul curriculum del presidente Obama, ormai agli sgoccioli del proprio mandato. Ma quali sono i veri motivi che lo hanno portato al fallimento?

Il Presidente americano, Barack Obama
Il Presidente americano, Barack Obama Foto: ANSA

WASHINGTON – La sua presidenza è agli sgoccioli, e Barack Obama rischia di lasciare ai posteri un pessimo ricordo di sé. Il rompicapo della crisi siriana, che l’interventismo russo ha improvvisamente «scongelato», è una matassa per Washington sempre più difficile da sbrigliare, e costituisce, con tutta evidenza, l’ombra più scura nella politica mediorientale di Obama. Perché di fatto lo stratega Putin, proprio al termine del mandato del presidente Usa, è riuscito a sparigliare del tutto le carte: ora, ad essere in palese difficoltà davanti a tutto il mondo non è Mosca, ma gli Stati Uniti. Che stranamente sembrano, sulla crisi siriana, non sapere che pesci pigliare. Ma quali sono le ragioni di questa evidente indecisione? La Siria è un Paese da quasi cinque anni dilaniato da un conflitto sanguinoso, ancora lontano dal risolversi in una svolta democratica o in una soluzione autoritaria che garantisca stabilità. Il prolungamento del conflitto, l’avanzata dello Stato islamico, l’inaudita crisi umanitaria hanno finito per rendere la Siria un problema, agli occhi della stessa superpotenza, praticamente ingestibile. L’amministrazione Obama ha infatti dovuto far fronte a una serie non indifferente di ostacoli, che hanno nettamente complicato la sua posizione nella crisi.

Russia, Medio Oriente in fiamme, immobilismo e Assad

1. Il primo è sotto gli occhi di tutti, ed è il più recente: il ruolo della Russia nella regione e la sua alleanza con l’odiato Assad. E’ chiaro che l’intervento di Mosca ha alzato notevolmente i costi di un eventuale impegno statunitense in Siria, volto a difendere innanzitutto i propri interessi (rovesciare Assad). Così, uno scenario simile ai Balcani, alla Libia o all’Afghanistan, con la presenza di Putin, è improponibile, perché manca una condizione assolutamente necessaria: il parziale o totale isolamento del regime odiato.

2. Altro «ostacolo»: l’amministrazione Obama, come Putin stesso ha indirettamente sottolineato nel suo discorso all’Onu, deve fare i conti con le disastrose conseguenze delle scelte interventiste degli ultimi 15 anni, che hanno portato a una progressiva e sempre maggiore destabilizzazione del Medio Oriente. Così, la strategia prescelta da Obama è stata quella del «parziale disimpegno», o, che dir si voglia, del «caos»: lasciare cioè che, in certa misura, nella regione prevalesse il disordine per far sì che nessuna forza emergesse nettamente sulle altre e garantirsi, da dietro le quinte, un ruolo di «supervisore». Anche in Siria, dunque, deve aver pesato la scelta di perseguire una politica di disimpegno, scelta che ha però rivelato i suoi limiti con l’entrata in scena del «rivale» Putin.

3. Anche il rapporto con l’Iran ha giocato un ruolo nell’«immobilismo» di Washington: il lungo negoziato sul nucleare si è felicemente concluso anche perché quel tavolo è stato tenuto saldamente separato da quello su cui si discuteva della crisi siriana. Di certo, prove di forza contro Assad avrebbero potuto irrimediabilmente comprometterlo: tanto più che oggi l’Iran è uno dei maggiori alleati sul campo di Mosca e del governo siriano.

4. A livello locale, inoltre, gli Stati Uniti sono rimasti vittime della loro stessa strategia: Obama ha dovuto accorgersi a sue spese dell’inesistenza di una compatta opposizione al regime di Assad. Così, il finanziamento e il supporto dei «ribelli moderati» ha dato frutti amari: da una parte, dei combattenti addestrati, solo 4 o 5 hanno effettivamente combattuto, armi alla mano, come auspicava Washington; dall’altro, si è finiti per alimentare il fuoco del fondamentalismo, e favorire l’avanzata dell’altro «nemico» dell’Occidente: lo Stato islamico. Oggi è chiaro più che mai che l’organizzazione di un gruppo politico affidabile, ben addestrato, ben armato e ben finanziato, e che rappresenti un’alternativa politica credibile al regime di Assad è un obiettivo di lungo periodo. Anche perché, nel mezzo, c’è l’enorme problema dell’Isis.

Un’interpretazione alternativa

Ma c’è anche chi ritiene che l’immobilismo di Obama, di fronte all’assertiva russa, sia solo una strategia. Secondo Dario Fabbri di Limes, al di là della propaganda ufficiale, Washington considererebbe funzionale ai propri interessi l’intervento di Mosca, «che nel migliore dei casi immagina risucchiata dalle sabbie mobili, oppure a lungo impegnata a puntellare il fronte alauita. Per Obama i danni collaterali riguarderanno unicamente le nazioni indigene. Mentre la superpotenza, che in Medio Oriente persegue il disimpegno, deve preoccuparsi solo di evitare incidenti con l’aviazione russa e presentare come oltraggiosa la manovra di Putin». Per Fabbri, «vista da Washington, la Russia non riuscirà a incidere in maniera decisiva su una guerra tanto complessa. Anzi, rischia di impantanarsi nel Grande Medio Oriente, come accaduto in Afghanistan all’inizio degli anni Ottanta». Tanto più che la campagna aerea del Cremlino impedisce ad Ankara, alleato sempre più problematico per gli Usa, di creare una no-fly zone: e il risultato potrebbe essere il congelamento della riesumazione di Turkish Stream, progetto che è negli interessi americani sabotare. Insomma: per Obama, il Medio Oriente sarebbe un «gineprario secondario» in cui vedere da lontano impantanarsi i rivali. Un’interpretazione geopoliticamente interessante, ma indubbiamente azzardata. Perché l’effetto collaterale che, in tutto ciò, il presidente Usa non avrebbe calcolato è la figura mediocre che, a essere messo tanto in ombra da Vladimir Putin, avrebbe fatto agli occhi del mondo.