19 aprile 2024
Aggiornato 04:00
Debito pubblico

Come siamo arrivati fin qui: storia della «truffa» della lotta al debito pubblico

L’Italia, politicamente ininfluente nella Ue ma ricca di industria e cultura, ha subito un attacco speculativo che ha imposto tagli draconiani

Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco e il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan
Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco e il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan Foto: ANSA

ROMA - Negli ultimi ventuno anni in Italia il rapporto tra debito pubblico e PIL è cresciuto di 15,7 punti, da 116,9 a fine 1995 (in presenza della Lira) a 132,6 a fine 2016. Il percorso è stato sinusoidale, dato che vi è stata una diminuzione di 17,1 punti nel periodo precedente alla "grande recessione", dal 1996 al 2007, e un aumento di 32,8 punti negli anni successivi. L'analisi di questa curva è rimossa dal dibattito economico politico. All’inizio della grande crisi debitoria globale, l’Italia era riuscita a far decrescere il rapporto a 99,8%. La disoccupazione era pari al 6,1%, inferiore alla media dell'Eurozona (7,5%), inferiore a Germania (8,5%) e Francia (8%). Da notare che in quel periodo la Germania già utilizzava le prime forme dei vari piani Hartz, ovvero la nervatura ideologica del Jobs Act. Il lavoro precario portato a valore unico, a legge morale, era ancora lontano.

Debito con prosperità
Ma torniamo al debito pubblico. Esso è salito di 613 miliardi di euro in dieci anni. Nel 2007 era pari a a 1.605 miliardi di euro. Una crescita incontenibile, sia in valore assoluto che in rapporto al Prodotto interno lordo, ossia alla ricchezza prodotta dagli italiani. Nel solo 2009 il debito pubblico esplodeva di ben 98,24 miliardi, quando il Pil scendeva del 5,3% in termini reali. Da notare che nel periodo antecedente la grande crisi il differenziale con il Bund, lo spread, si manteneva poco superiore al punto percentuale. Un altro dato: gli investimenti pubblici in Italia – infrastrutture, ricerca avanzata e servizi – in Italia sono stati decurtati durante gli anni della grande crisi del 30%.

Parola d'ordine austerità
Ricapitolando: l’Italia, a fronte di una disoccupazione medio-bassa, alleggeriva il suo debito pubblico in assenza dei cosiddetti lavoretti, ovvero la precarietà dilagante che gonfia le statistiche Istat sugli occupati ma, al contempo, ingenera forti fenomeni deflattivi dovuti alla domanda interna asfittica. Non solo: i tassi di interesse sui titoli di stato erano stabili, fino al 2007, e lontanissimi dai picchi del biennio 2011-2012. Come poteva accadere questo? A fronte della anaelasticità dell’euro – cambio fisso uguale impossibilità di svalutazioni competitive – l’Italia sforava per diversi anni i parametri di Maastricht, in particolare il tristemente famoso rapporto deficit/Pil incardinato ad un misterioso 3%. Deciso in lontani anni passati, il rapporto era, ed è oggi ancor più in presenza del Fiscal Compact, l’ignorata base materialista dell’ideologia conosciuta come «austerità». Si parla di sforamento dell’ordine del punto percentuale, o poco più. Le finanze pubbliche erano quindi sotto controllo. E, dovrebbe essere aggiunto, che tali limitazioni recano in sé un vulnus costituzionale evidente. 

L'orwelliana guerra al debito pubblico
Quello che è accaduto dopo è una verità orwelliana, in cui le cose, la materia, assumono un valore contrario alla sua essenza. La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. L’abusata metafora ha assunto dimensioni macroscopiche, al punto tale che lo stesso autore di 1984 viene utilizzato come una clava per confutare la realtà dei fatti. La caratteristica culturale, la pietra angolare si potrebbe definire, del dogma dell’austerità è la lotta al debito, e in subordine all’inflazione. Il debito pubblico è visto come il male assoluto, e deve essere combattuto. Soggiacente a questa dottrina non c’è una lotta al debito degli stati, condizione normale nella storia che ha portato ai salti di civiltà che tutti noi conosciamo e godiamo – ancora per poco –, bensì alla lotta agli Stati nazione in primis, e successivamente, alla democrazia. 

Il debito è solo un falso obiettivo: nel centro del mirino c'è lo Stato
L’Italia, ventre molle dell’Unione Europea politicamente, ma ricca di industria e cultura, ha subito un attacco speculativo che ha imposto tagli draconiani ai servizi sociali, agli investimenti pubblici, e al costo del lavoro. Un progressivo avvelenamento che ha deteriorato le finanze pubbliche, lo spessore civico culturale del paese, la propensione democratica, e in definitiva ha spostato il potere dalle istituzioni pubbliche ai consessi finanziari. Le promesse elettorali di questi giorni, con l'attuale normativa finanziaria europea, unita alla moneta unica ovviamente, sono vuote. Si sta concretizzando un nuovo assetto ideologico globale. L’obiettivo finale è la trasformazione del mondo – la globalizzazione – in un immenso mercato privato degli stati. In cui l’etica non è fondata su principi filosofici bensì su valutazioni squisitamente econometriche. Si tratta di una visione anarcoide, al di là di ogni forma di liberalismo economico. Che, paradossalmente, fonda in sé un architrave del marxismo-leninismo – la fine degli stati – con il turbocapitalismo darwinista.