8 maggio 2024
Aggiornato 17:00
Trattativa Stato-mafia

Galliano: «Nel '91 Riina vide politici e ministri»

Mentre Falcone e Borsellino saltavano in aria a Palermo per aver portato alla sbarra, e fatto condannare, Cosa nostra, nei giorni in cui l'Italia intera conosceva il sangue delle autobombe del '93, esponenti delle istituzioni, ufficiali dell'arma e gli stessi mafiosi, si sedevano attorno a un tavolo per cercare di porre fine a quella strategia stragista decisa da Totò Riina.

PALERMO - Mentre Falcone e Borsellino saltavano in aria a Palermo per aver portato alla sbarra, e fatto condannare, Cosa nostra, nei giorni in cui l'Italia intera conosceva il sangue delle autobombe del '93, esponenti delle istituzioni, ufficiali dell'arma e gli stessi mafiosi, si sedevano attorno a un tavolo per cercare di porre fine a quella strategia stragista decisa da Totò Riina.

Dall'assunto di questo «incontro», di questa «trattativa», negli ultimi 14 mesi il processo di Palermo ha disvelato e fatto conoscere aspetti ancora oscuri e inquietanti di quei mesi di tensione, portando alla sbarra i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Antonino Cinà, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella; gli ufficiali dell'Arma Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, l'ex presidente del Senato Nicola Mancino, l'ex senatore Marcello Dell'Utri, e Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo. A sfilare sul banco dei testimoni, oggi è toccato al pentito Antonino Galliano, ex uomo d'onore vicino ai boss della Noce, Mimmo e Stefano Ganci.

Davanti alla Corte d'Assise presieduta dal giudice Alfredo Montalto, Galliano ha raccontato di quel 19 luglio, di quando i suoi «padrini» gli dissero «sentiti u' botto» (senti il botto), che annunciava l'esplosione di via D'Amelio. Uomo d'onore "riservato", ovvero incensurato, Galliano poteva avere più facilmente rapporti con l'esterno e con soggetti non affiliati a Cosa nostra. Condannato per l'omicidio dell'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, durante le fasi di preparazione degli attentati a Falcone e Borsellino si occupò dell'osservazione dei due magistrati e delle loro scorte.

Rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo, che insieme al procuratore aggiunto Vittorio Teresi, al sostituto Francesco Del Bene e al pm Roberto Tartaglia, regge l'accusa in quello che è uno dei processi più difficili della storia dell'ordinamento italiano, Galliano ha dipinto l'atteggiamento irrequieto di una Cosa nostra che non si rassegna all'idea di venire inchiodata ad una sentenza. Al punto che il suo capo indiscusso, Totò Riina, in piena latitanza, nel novembre del '91, sarebbe andato in Calabria per «incontrare generali, ministri, politici e esponenti delle istituzioni». Obiettivo di quell'incontro era soltanto uno: modificare l'esito del Maxiprocesso che in quei mesi attendeva la sentenza definitiva della Cassazione. «Riina si faceva accompagnare in posti diversi da persone diverse perchè non tutti dovevamo sapere dove andava - ha spiegato Galliano - e dopo la condanna definitiva, Cosa nostra decise che bisognava colpire i politici siciliani perché non avevano rispettato i patti».

Quindi Galliano, rispondendo stavolta all'aggiunto Teresi, ha parlato della guerra di mafia scatenata a Palermo negli anni '80, e del ruolo di mediazione avuto da Marcello Dell'Utri tra le cosche palermitane e l'imprenditore Silvio Berlusconi, costretto con l'intimidazione a rimettere mano al portafogli. «Durante la guerra di mafia - ha detto Galliano -, Berlusconi non volle più dare soldi a Cosa nostra, e Ganci mi raccontava che per farlo tornare a pagare, ci fu l'interessamento di Riina, che tramite i catanesi fece mettere una bomba per sollecitarlo a cercare l'aiuto di Dell'Utri». I soldi di Berlusconi, secondo la ricostruzione di Galliano, attraverso Dell'Utri e poi il boss Antonino Cinà, arrivavano a Palermo, a Totò Riina, che si occupava della ripartizione tra le famiglie degli affiliati.

Domani, nell'aula bunker del carcere Ucciardone toccherà al presidente del Senato Pietro Grasso salire sul banco dei testimoni. Una scelta, quella di venire ascoltato nell'«astronave verde», voluta fortemente dalla seconda carica dello Stato, che proprio in quell'aula fu protagonista, come giudice a latere, del Maxiprocesso a Cosa nostra. «L'aula bunker - ha detto Grasso -, è un pezzo della mia vita». Secondo quanto scritto dai magistrati, «Grasso dovrà riferire in ordine alle richieste provenienti dall'odierno imputato Nicola Mancino aventi ad oggetto l'andamento delle indagini sulla trattativa, l'eventuale avocazione delle stesse o il coordinamento investigativo delle Procure interessate».