18 aprile 2024
Aggiornato 21:30
Uno studio dalla portata rivoluzionaria

Dietrofront del FMI: «Scusate, sull'austerity ci siamo sbagliati»

Le fondamenta dell'Unione Europea sono state costruite sulla teoria dell'austerità, del rigore e della disciplina dei conti pubblici. Ma, oggi, il FMI ammette di aver compiuto qualche errore di valutazione...

ROMA – John Maynard Keynes ne era convinto: l'austerità non paga. Ma a sostenerlo, contro tutto e tutti, erano solo gli economisti cosiddetti «eterodossi». Oggi, invece, tanti anni dopo la morte del padre della macroeconomia, le certezze propinate da un certo ambiente politico-accademico stanno mostrando tutte le crepe presenti nel tempio dell’austerity. E a doverlo ammettere è proprio il Fondo monetario internazionale, che per decenni è stato il baluardo dell’ortodossia.

Uno studio dalla portata rivoluzionaria
Come si legge nell’articolo pubblicato da Alessandro Cianci su sbilanciamoci.info, un recentissimo studio del Fmi – pubblicato il 2 giugno scorso - afferma che in diversi casi si dimostra più sensato e vantaggioso convivere con un alto livello di debito piuttosto che impegnarsi nel ripagarlo. Lo studio realizzato per il Fmi da Jonathan D. Ostry, vice direttore dell’istituto di Washington, ha una portata rivoluzionaria. Era convinzione comune, infatti, che il debito pubblico rappresentasse un freno alla crescita economica di un paese, un fardello tropo pesante destinato alle generazioni future e un problema da risolvere. Questo approccio teorico, riconducibile alla teoria ortodossa, ha avuto non poche conseguenze nella gestione delle conflittualità internazionali, come nel caso della crisi greca.

L’austerity è controproducente
La ricerca in questione, condotta – vale la pena sottolinearlo ancora una volta - dallo stesso FMI e non da chicchessia, afferma che la riduzione del rapporto debito/PIL possa avvenire fisiologicamente tramite la crescita economica e non attraverso i tagli alla spesa pubblica, l’aumento delle tasse e la spending review. L’utilizzo dell’avverbio «organically» nel documento indica proprio che lo strumento ritenuto fisiologico con il quale ridurre il rapporto debito/PIL sia la crescita e non, come teorizzavano le teorie dell’austerity, le forme di riduzione del debito effettuate tramite strette fiscali. Questi studi minano profondamente le fondamenta accademiche sulle quali si fonda la gran parte delle regole comunitarie dell’Unione Europea, e la stessa credibilità degli economisti tedeschi, che del diktat dell’austerity hanno fatto il loro credo e il loro vanto agli occhi della comunità internazionale.

La rivincita di Keynes
Ce l’aveva già detto Keynes, d’altronde: tagliare la spesa pubblica ha effetti depressivi maggiori, sull’economia di un paese, dell’ammontare del taglio stesso. Per capirci, secondo i dati riportati sul sito keynesblog.com, un taglio della spessa pubblica equivalente all’1% del PIL provoca una caduta fino al 2,56% del PIL per l’Eurozona, del 2% per il Giappone e del 2,18% per gli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’Italia, invece, si va dall’1,4% all’1,8%. In altre parole, pensare di risolvere il problema della crisi economica con un piano di tagli alla spesa pubblica e un aumento delle tasse, è controproducente perché causa un ulteriore avvitamento della crisi. La teoria del moltiplicatore keynesiano ci insegna, invece, che un aumento della spesa pubblica determina un incremento del PIL nazionale, perché mette in moto l’economia reale. Finalmente anche il FMI, tempio dell’ortodossia, sembra aver imparato la lezione. Ma chi avrà il coraggio, oggi, di andarlo a dire ai greci?