25 aprile 2024
Aggiornato 12:30
Welfare

Lo dice anche l'Inps: è tempo di reddito minimo garantito

Dopo Sel e l'M5s, ora anche il presidente Tito Boeri propone al governo questa misura. Che servirebbe a contrastare la libertà e a rendere più equo il mercato del lavoro. Cosa aspetta Matteo Renzi?

ROMA – Forse questa è davvero #lavoltabuona. Almeno per il reddito minimo garantito. Lo proposero prima Rifondazione comunista e poi Sel, ma con la loro solita efficacia i sinistroidi si sono fatti scippare il loro cavallo di battaglia. Poi l'ha proposto il Movimento 5 stelle, ma chiamandolo «reddito di cittadinanza»: e non è la stessa cosa, perché in questo caso i soldi andrebbero a tutti, poveri e ricchi, nella stessa misura, con costi esorbitanti. Oggi a proporlo è addirittura il presidente dell'Inps, Tito Boeri, e nella sua formula più corretta: rivolto solo alle persone in condizioni di bisogno e accompagnato a controlli stringenti per verificarne l'effettiva povertà. Per i cittadini al di sopra dei 55 anni, spiega Boeri, «le risorse si possono trovare nell'ambito delle politiche oggi gestite dall'Inps», ovvero senza spendere un euro in più. E lui, che è un economista, i conti dovrebbe saperli fare. Per tutte le altre fasce d'età è possibile che avvenga all'incirca la stessa cosa, cancellando tutte le attuali forme di welfare e di sostegno al reddito e sostituendole con un unico reddito minimo garantito universale.

Ce lo chiede l'Europa
Vi sembra un'utopia? Ebbene, sappiate che tutti gli Stati dell'Unione eccetto l'Italia e la Grecia (due a caso) hanno in vigore questa misura da ormai diversi decenni (la Francia, una delle ultime ad adottarla, lo fece nel 1988) e che esiste addirittura una risoluzione comunitaria per la quale saremmo tenuti a seguire l'esempio dei nostri vicini. Ce lo chiede l'Europa, insomma. Non si tratta, badate bene, di una cassa integrazione, poiché quest'ultima spetta soltanto a chi un lavoro ce l'aveva e per giunta versava i contributi: ne sono dunque esclusi i lavoratori precari e i cittadini in cerca di primo impiego. Non è una misura «de sinistra» (in Inghilterra fu in vigore anche sotto il governo Thatcher), né tantomeno intende creare un esercito di parassiti che vivano alle spalle dello Stato.

Contro sfruttamento e mafia
Il lavoro, infatti, non dev'essere il fine della vita, ma un mezzo: per la propria sussistenza, per il proprio riscatto sociale, per la propria realizzazione. L'etica del lavoro purchessia, invece, ci ha portato ad accettare impieghi privi di ogni garanzia, irregolari e sottopagati, pur di assicurare a noi e alle nostre famiglie la sopravvivenza. Riflettiamo: ad oggi, chi è senza lavoro rischia di morire di fame. Siccome nessuno accetta placidamente di morire di fame (per quanto ci possano privare di ogni dignità, ci rimane perlomeno l'arcaico istinto alla sopravvivenza), le soluzioni sono tre: o si va a rubare, o si accettano, per l'appunto, lavori degradanti e sottopagati, oppure si entra nelle file della criminalità organizzata, che continua ad attrarre troppi giovani proprio perché offre quei posti stabili e ben retribuiti che le istituzioni non sono in grado di garantire. Dare un mezzo di sussistenza anche a chi non ha lavoro porterebbe dunque a non essere costretti a delinquere, a rifiutare di lavorare in un call center a 300 euro al mese, e probabilmente anche a ridurre il numero di effettivi della mafia. E scusate se è poco.

Lavoro e libertà
Sarebbe, insomma, una misura che ci garantirebbe la libertà. La libertà per i giovani di potersi finalmente emancipare dalle famiglie di origine senza che debbano essere loro stesse a finanziarli (quelle che possono), la libertà per le coppie di poter mettere su casa, la libertà per chi vuole migliorare la propria condizione di vita di lasciare il lavoro, studiare e creare le condizioni per trovarne uno più qualificato. Certo, non basterebbe da sola a risolvere tutti i problemi del mercato del lavoro in Italia (servirebbe una riforma organica che parta dal miglioramento dell'efficienza degli uffici di collocamento), ma darebbe effettivamente una grande mano, specialmente in condizioni di crisi economica. Senza le necessarie garanzie, altrimenti, la tanto auspicata flessibilità del lavoro diventa solo precarietà. E i nostri giovani ne sanno qualcosa.