Salvatore Di Bartolo: «Così il governo Meloni dovrà riformare il reddito di cittadinanza»
Il professor Salvatore Di Bartolo analizza ai microfoni del DiariodelWeb.it le criticità del controverso sussidio, a cui ha dedicato il suo libro «La grande utopia»

Tra i tanti dossier sul tavolo del neonato governo Meloni ce n'è uno che spicca per l'importanza che riveste, a livello ideologico nel programma elettorale, ma anche a livello economico per il suo peso nel bilancio dello Stato: il reddito di cittadinanza. Il centrodestra sarà chiamato subito a mettere le mani su questa controversa misura: «Bisogna dare un segno di discontinuità rispetto ai passati governi, serve un cambio di passo culturale, comunicativo ma anche educativo, per far capire che è l'epoca dei sussidi», ammonisce ai microfoni del DiariodelWeb.it il professor Salvatore Di Bartolo, docente della Federiciana Università Popolare. Che al tema ha dedicato un libro, intitolato «La grande utopia. Analisi degli effetti e dei profili critici del reddito di cittadinanza», edito da La Bussola e che vanta la prefazione dell'ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi.
Professor Salvatore Di Bartolo, questi primi anni di esperienza con il reddito di cittadinanza hanno riservato più luci o più ombre?
Per lo più ombre, le luci non sono così tante. Di certo, soprattutto dopo la pandemia, una misura a sostegno della povertà è fondamentale. C'è un enorme disagio sociale e non bisogna lasciare indietro nessuno.
Quali sono state le principali criticità?
Essenzialmente due. La prima: è stata una misura assistenziale a pioggia, cioè ha incluso anche chi non aveva il minimo diritto a ricevere queste somme. Come spesso accade, si è dato ampio respiro a chi cerca di approfittarsi di questi soldi gentilmente elargiti dallo Stato per lucrare.
Questo per come è stata concepita la misura o perché sono mancati i controlli?
Per entrambi i motivi. Come si suol dire, «fatta la legge, trovato l'inganno»: c'è stata una proliferazione di tutti i possibili escamotage fraudolenti per rientrare nei parametri, dai divorzi all'intestazione di case, macchine o conti correnti ad altri soggetti. D'altra parte esiste anche il fenomeno opposto.
Ossia?
Chi avrebbe effettivamente bisogno del sussidio ma non riesce a ottenerlo, magari perché ha un rudere di proprietà, da cui pure non trae alcun beneficio economico. A causa di quel bene che possiede o di cui è cointestatario non rientra nei parametri. Di queste situazioni ne esistono molte e le ho riscontrate.
A questo sarebbero serviti i controlli.
Che sono mancati. Nel libro dico che l'Italia è un Paese a sé: non è una critica ai miei concittadini, ma sappiamo che spesso tendiamo ad aggirare le regole. Almeno ci si sarebbe dovuto assicurare che chi riceveva questi soldi a pioggia ne avesse pieno diritto.
Anche a tutela di chi il reddito lo percepiva per un buon motivo.
Certo. Altrimenti si delegittima anche chi ha bisogno. Si forma una sorta di odio sociale nei confronti dei percettori del reddito. L'italiano medio pensa: «Io mi alzo la mattina alle 6, mi metto in macchina e vado ad affrontare otto ore di lavoro; lui sta sul divano tutto il giorno e guadagna quasi quanto me...». Questo è un altro dei problemi.
Se lo stipendio medio è quasi pari al reddito di cittadinanza, si crea un disincentivo a cercare lavoro.
Le persone si ritrovano di fronte a due offerte: andare a lavorare oppure percepire quasi la stessa cifra, ma avere il tempo eventualmente anche per arrotondare con un'attività a nero. Quale persona, in questo caso, preferirebbe lavorare?
Infatti quest'estate si è registrata una carenza di lavoratori stagionali.
Perché per tre o quattro mesi di lavoro dovrebbero rinunciare al sussidio: non gli conviene. Sono mancati quasi 200 mila lavoratori: i bar, i ristoranti, i lidi hanno subìto la concorrenza sleale del reddito di cittadinanza. Sarebbe stato molto più saggio garantire la cumulabilità, ovvero la possibilità di mantenere il sussidio, magari in forma ridotta, anche accettando un'offerta di lavoro.
Anziché creare un incentivo alla ricerca di lavoro, si è creato un disincentivo.
Infatti il vero flop del reddito di cittadinanza è la parte che riguarda le politiche attive dell'occupazione. Il sussidio nasce sì per sostenere le persone in situazione di disagio, ma anche accompagnarle a un ingresso o a un reinserimento nel mercato del lavoro.
Questo non è avvenuto?
Solo in situazioni sporadiche. Si è pensato di poter abolire le piaghe della povertà e della disoccupazione semplicemente per decreto. Questa è stata «la grande utopia» che dà il titolo al libro.
Se fosse stato così facile, lo avrebbero già fatto prima.
O è stato un caso di arroganza e presunzione, o di incompetenza: non ho ancora capito quale dei due. Voglio pensare che fossero in buona fede, perché in caso contrario sarebbe voto di scambio.
Si è parlato anche di quello.
E i risultati delle ultime elezioni politiche del 25 settembre sembrano dimostrarlo: laddove c'è una più alta percentuale di percettori, il Movimento 5 stelle ha preso più consensi.
Ora la palla passa nelle mani del nuovo governo.
Nel corso della campagna elettorale e già nei mesi precedenti non solo i partiti di destra, ma anche quelli di centro avevano parlato molto di abolire il reddito. Ora nemmeno il governo Meloni se la sente di cancellarlo. Altrimenti bisognerebbe sostituirlo con un'altra misura a sostegno della povertà: non avremmo risolto nulla. Semmai si procederà a una riforma.
Su quali punti bisognerebbe intervenire?
Ho apprezzato la proposta della Meloni di mettere alle strette la consistente platea di beneficiari che hanno firmato un patto di servizi, cioè che sono immediatamente attivabili al lavoro. Su 917 mila totali sono ben 660 mila. Così si alleggerirebbe la pressione sul bilancio dello Stato, si ridurrebbe a circa un quarto la spesa per questa misura, che è di 8,8 miliardi di euro, quasi un quarto della finanziaria.
Ma si lancerebbe anche un messaggio.
Ai giovani, quelli che possono lavorare, si farebbe capire che la pacchia è finita. Mi sembra giusto, anche per assicurare loro una dignità e un futuro. Continuando a sussidiarli per sempre, a dare una mancia, non facciamo il loro bene. Diverso è il caso di chi non può lavorare, per età o condizioni di salute: una minoranza, poco più di 100 mila, per cui va benissimo mantenere il reddito.
Altri suggerimenti?
L'impostazione iniziale del provvedimento prevedeva un massimo di tre rifiuti alle offerte congrue di lavoro. Il governo Draghi l'aveva abbassato a due, oggi il sottosegretario Durigon ha proposto di portarle a una. Sarei totalmente d'accordo.
Come mai?
Se di base l'offerta è congrua, perché dobbiamo dare la possibilità di rifiutarla? Mi sembra un controsenso.
Delle altre proposte circolate cosa pensa?
Leggevo che vorrebbero prolungarlo a un massimo di cinque anni, con una verifica dopo 18 mesi e una sorta di meccanismo di decalage per i successivi trenta, al massimo. Non so nemmeno se prenderà forma, ma mi pare molto ingarbugliata e mi convince poco.
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