29 marzo 2024
Aggiornato 16:30
Modernizzare non deve essere sinonimo di accentrare

RAI: il solito vizio di Renzi, «l’uomo solo al comando»

Di fronte alle incertezze programmatiche di Matteo Renzi sulla riforma Rai, sarebbe il caso di tenere conto delle caratteristiche del sistema radiotelevisivo italiano. Considerando che nel sistema europeo il costo del lavoro sul fatturato della Rai è tra i più alti in assoluto, e che modernizzare non significa accentrare.

ROMA - Di fronte alle incertezze programmatiche di Matteo Renzi sulla riforma Rai, sarebbe il caso di discutere con i piedi per terra. Tenendo conto delle caratteristiche del sistema radiotelevisivo italiano, nel contesto europeo. Fuori quindi dalle vulgate un po’ naif. O ancor peggio dalle furbizie di Palazzo. O dal tentativo di riproporre modelli ormai fuori dal tempo. La televisione di Ettore Bernabei fu una grande cosa. La risposta delle forze democratiche, soprattutto di Amintore Fanfani, alla grande organizzazione comunista di allora. Due milioni di iscritti, nell’immediato dopoguerra. Un rapporto assorbente con gli intellettuali, chiamati alla saldatura tra la nuova «cultura» leninista della Terza internazionale e la tradizione italiana. Spaventa-De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci. Quella falange di uomini di uomini e di mezzi – l’oro di Mosca – fu sconfitta dalla modernità del mezzo di comunicazione. La cui potenza – si pensi all’opposizione di Berlinguer a La Malfa all’introduzione in Italia del colore - fu dal Pci, a lungo, sottovalutata.

RENZI VUOLE TORNARE INDIETRO - Oggi quei tempi, per fortuna, sono andati. Riproporre quindi la figura di un capoazienda di nomina governativa, come è stato ventilato. Oppure la scelta da parte di Palazzo Chigi della maggioranza dei consiglieri, secondo una versione più aggiornata, rappresenta un salto all’indietro. Tanto più pericoloso se si considera il suo combinato disposto con le riforme di carattere costituzionali e la legge elettorale. Una soluzione che comporterebbe una concentrazione di potere senza precedenti. Da far impallidire la vecchia Italia crispina. Motivi più che sufficienti per abbandonare questo spartito e partire dai dati della realtà del sistema radiotelevisivo italiano. Così come è andato evolvendo. Con tutte le sue differenze rispetto alle altre esperienze europee.

NON È LA BBC -   Il sistema misto – televisione pubblica e televisione commerciale – non è un modello esclusivamente italiano. In Inghilterra La Bbc Psb (Public Sector Broadcasting), interamente finanziata dal canone pubblico, divide la sua offerta televisiva con la Bbc Worldwide e la Bbc Monitoring: servizi commerciali internazionali che si finanziano esclusivamente con la pubblicità. In Francia il servizio pubblico, che contempla anche la raccolta pubblicitaria, è gestito da France Télévisions: che ha nella pancia 18 società controllate. In Germania esistono due consorzi pubblici Ard e Zdf. La prima nacque su iniziativa degli alleati, alla fine della seconda guerra mondiale ed ora raggruppa le televisioni pubbliche locali. Zdf fu invece fondato nel 1961. E’ un ente pubblico che trasmette su quattro canali nazionali (generalisti) e su 7 reti tematiche. In Spagna opera la Rtve, come televisione pubblica. L’offerta televisiva prevede la partecipazione attiva di diverse televisioni locali, riunite in una federazione nazionale. Mediaset Espana è una delle principali televisioni commerciali, con uno share, nel 2013, pari al 31 per cento del totale. 

LA RAI COSTA PIÙ DI TUTTI - Come si colloca la Rai in questo complesso panorama? Agli ultimi posti, almeno per quanto riguarda il fatturato, come mostra il grafico. Con il più alto costo del lavoro sul fatturato (38,1%) superato solo dai tedeschi (38,5%). Ma di gran lunga inferiore agli inglesi (24,2%). Per avere un’idea delle differenze, si consideri che nello stesso anno (2013) il costo del lavoro di Mediaset sul fatturato è stato pari a meno della metà (15,9%). Sebbene con fatturato di gran lunga superiore (25% in più). Caratteristica che ritroviamo anche nei confronti di Sky: costo del lavoro sul fatturato pari a 7,7%. Fatturato superiore del 8 per cento. Dati indicativi dello stato di malessere gestionale in cui vive la televisione pubblica italiana. Un elefante che ha un numero di dipendenti inferiore alla Bbc e al gruppo tedesco, ma superiore ai francesi. Comunque pari a più del doppio i Mediaset e quattro volte tanto quelli di Sky.

UN SISTEMA DA MODERNIZZARE - Le sue immobilizzazioni tecniche sono più che obsolete. La relativa età media è di 23 anni, contro i 10 delle Bbc e i 12 del Gruppo francese. Dato che dovrebbe far riflettere, nel valutare la forza del progetto industriale implicito nell’offerta di Ei Tower su Rai Way. La messa in comune della rete di trasmissione del segnale televisivo, a parte le possibile sinergie con il più complesso sistema delle telecomunicazioni, darebbe una forte spinta alla razionalizzazione e all’ammodernamento di strutture più che invecchiate. Con  conseguenti risparmi, in termini di efficienza, e di costi. Questi semplici dati forniscono un quadro esauriente. Il principale problema della Rai è la sua modernizzazione. Innanzitutto dal punto di vista gestionale complessivo. Va bene quindi l’enfasi riposta sul suo prestigio culturale. Ma l’esperienza insegna – si veda il caso Rcs – che alla lunga non è solo la produzione culturale a tenere in vita un’azienda. Se essa non si intona ad una logica di mercato, in grado di sostenerla nel più lungo periodo. Sono ancora i dati di bilancio a dimostrare la validità di quest’assunto, riferito all’intero sistema televisivo italiano. Le cadute del relativo fatturato sono rilevanti. Negli ultimo cinque anni (dal 2009 al 2013) il fatturato dei principali operatori è diminuito dell’8,9%. Ma in modo più che differenziato.

ATTENTI A NON LAVORARE PER MURDOCH - Mediaset ha perso il 12 per cento, mentre Sky ha guadagnato l’1,6 per cento. Il crollo della Rai è stato, tuttavia, di gran lunga superiore: pari al 14,8 per cento del totale. Cifra che diventa addirittura pari al 38,3 per cento se si considerano le entrate derivanti dal canone pubblico, che non sono diminuite, ma leggermente aumentate: di circa il 6,5 per cento. L’interrogativo che sorge a questo punto è evidente. Ma non è che stiamo tutti lavorando per Rupert Murdoch? Per carità: nulla da eccepire sulla presenza del tycoon australiano, naturalizzato americano. Gli investimenti esteri sono come il denaro: non olet. E’ sul suo modello di business che eccepiamo. Se dovesse divenire prevalente, che fine farebbero le migliaia di addetti che operano nel settore radiotelevisivo italiano, allocati in prevalenza (circa l’83 per cento) presso le televisioni che trasmettono via etere e non con il satellite? Matteo Renzi, nell’esercitarsi intorno, alle possibili soluzioni da dare alla Rai, dovrebbe tener conto di questo panorama più complessivo. E non subordinare il tutto ad una volontà di potenza personale. Che alla lunga rischia, inevitabilmente, di non tenere.