Renzi e Bersani alla resa dei conti
Lontani, i tempi del «metodo Mattarella». Il «metodo Renzi», a Bersani e entourage, proprio non piace. Una strategia perpetrata a colpi di decreti legge e che, ad avviso dell'ex segretario, riduce organismi dirigenti del partito a semplici «figuranti». E dopo lo scontro sul Jobs Act e sul decreto Rai, è ora la volta della riunione dei gruppi parlamentari, a cui Bersani ha deciso di non andare.
ROMA – La riunione dei gruppi parlamentari dem convocata per oggi dal premier Renzi avrà almeno un assente illustre: Pierluigi Bersani. Il casus belli è stata la lettera aperta del giovane Presidente del Consiglio ai suoi parlamentari, che indicava la fittissima tabella di marcia per la riunione. Una tabella di marcia che comprimeva a una sola ora il dibattito per ciascun tema in discussione: scuola, Rai, ambiente e fisco. Eppure, per l’ex segretario Pd, che interpreta i sentimenti di tutta la sinistra dem, questo modo di procedere assomiglia pericolosamente a una «presa in giro». Già lontani, i tempi del «metodo Mattarella» che aveva letteralmente compattato il Centrosinistra. Il «metodo Renzi», a Bersani e entourage, non piace per nulla.
BERSANI GRANDE ASSENTE NELLA RIUNIONE ODIERNA - «Non ci penso proprio – ha detto Bersani a proposito della sua partecipazione alla riunione, incassando il plauso di Pippo Civati -, perché io m'inchino alle esigenze della comunicazione, ma che gli organismi dirigenti debbano diventare figuranti di un film non ci sto». Ad Avvenire, l’ex segretario affida parole di fuoco, destinate a provocare una vera e propria valanga nel Pd: «Siamo al limite perché si danno cinque minuti per parlare di fisco, cinque per l’ambiente... ma scherziamo?». La risposta sembra un no senza appelli: «Io chiedo una discussione ordinata, la convocazione dei gruppi parlamentari. Una cosa seria si fa così». Tra i delicati argomenti affrontati nell’incontro convocato dal premier, peraltro, figurano anche la riforma delle banche popolari, il caso Rai-Mediaset e le liberalizzazioni. Temi destinati ad animare la discussione tra minoranza e maggioranza dem.
SCONTRO SU JOBS ACT E DECRETO RAI - Ma quello della riunione è stato soltanto il casus belli, l’ultima goccia che ha fatto traboccare un vaso ormai arrivato all’orlo. Il punto di rottura con Renzi è stato infatti il Jobs act. Quella legge, secondo Bersani, «mette il lavoratore in un rapporto di forze pre-anni ’70», e si pone perciò «fuori dall’ordinamento costituzionale». Il fatto che il governo non abbia accolto le modifiche proposte «all’unanimità» dal Pd nei pareri sui decreti attuativi del Jobs act fa apparire ora una «ridicola presa in giro», secondo Stefano Fassina, il gesto del segretario di convocare quegli stessi parlamentari a discutere di fisco. Insomma: la convocazione di Renzi sarebbe soltanto una mossa di facciata, visto che, alla fine, il premier si mostra indisponibile ad accogliere le proposte dei suoi parlamentari di minoranza. Altra circostanza scatenante la «rivolta», il provvedimento d’urgenza di riforma della governance della tv pubblica annunciato da Renzi negli scorsi giorni. Decreto contro cui si era scagliata anche la Presidente della Camera Laura Boldrini, che aveva sottolineato come non ci fossero condizioni di urgenza a giustificare lo scavalcamento del normale iter parlamentare, garanzia di funzionamento democratico. «Piaccia o non piaccia – ha invece sottolineato il capo del governo -, tocca al Pd dover garantire il futuro all'Italia, almeno in questa fase storica. [...] È una grande responsabilità. Col massimo rispetto per il doveroso dibattito interno al Pd tra aree culturali, sensibilità diverse e gruppi organizzati, vorrei che il nostro confronto fosse sui contenuti più che sulle etichette».
L’ANTICO NODO OSTRUZIONISMO-DECRETO LEGGE - D’altronde, a detta di Renzi il suo nemico numero uno ha un nome preciso: ostruzionismo. «Saremo in grado di fare qualche decreto in meno se le opposizioni faranno qualche atto di ostruzionismo in meno. Se le opposizioni in tutti i passaggi della vita parlamentare scelgono l’ostruzionismo è loro diritto, ma lo strumento naturale secondo Costituzione diventa fatalmente il decreto», ha dichiarato il premier qualche giorno fa da Parigi. Una frase che ha subito scatenato la contestazione di Renato Brunetta: «L’articolo 77 della Costituzione non prevede [...] l’uso della decretazione d’urgenza contro l’ostruzionismo parlamentare, ma prescrive il ricorso a questo particolare strumento legislativo solo in particolari situazioni di necessità e urgenza». Tuttavia, la deriva dell’uso indiscriminato del decreto d’urgenza ha radici più antiche di quanto si pensi: già nel 1975 Alberto Predieri notava che la natura del decreto era cambiata e che esso era diventato una sorta di «disegno di legge governativo rafforzato». In anni più recenti, a favore della necessità di utilizzare in maniera appropriata lo strumento del decreto si era espresso anche l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con una lettera indirizzata all’allora premier Silvio Berlusconi in merito al caso di Eluana Englaro. In quell’occasione, Napolitano aveva bollato come «inappropriato» il ricorso al decreto legge, e aveva ricordato che «il potere del Presidente della Repubblica di rifiutare la sottoscrizione di provvedimenti di urgenza manifestamente privi dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza previsti dall'art. 77 della Costituzione o per altro verso manifestamente lesivi di norme e principi costituzionali discende dalla natura della funzione di garanzia istituzionale che la Costituzione assegna al Capo dello Stato ed è confermata da più precedenti consistenti sia in formali dinieghi di emanazione di decreti legge sia in espresse dichiarazioni di principio di miei predecessori (si indicano nel poscritto i più significativi esempi in tal senso)». In ogni caso, la non partecipazione di Bersani e di altri esponenti della sinistra dem alla riunione di oggi non sarà priva di conseguenze. L’ex segretario non è più disposto a fare il «figurante», mentre il suo giovane successore bolla le sue critiche come polemiche «sterili e ingiustificate». Con questi presupposti, l’aventino della minoranza dem non sembra destinato a rientrare facilmente.
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