11 settembre, 15 anni dopo. Come la «guerra al terrorismo» ha prodotto più terroristi
Sono trascorsi 15 anni dall'11 settembre 2001. 15 anni di guerra al terrorismo, di lotta alla radicalizzazione, di dibattiti e, purtroppo, di attentati. Cosa è cambiato?
NEW YORK - 11 settembre, 15 anni dopo. Impossibile dimenticare, per chi, quelle immagini, le ha viste in diretta tv o di poco in differita, la sensazione di stordimento e terrore insieme, man mano che cresceva la consapevolezza che il mondo non sarebbe stato più quello di prima. L'11 settembre ha diffuso la certezza che l'Occidente non poteva più dirsi immune, che avrebbe dovuto ripensare sinceramente al proprio passato (coloniale e non) e pianificare attentamente il proprio futuro. Ed è proprio su quest'ultimo punto che si è scatenato il dibattito tra gli interventisti e i pacifisti, tra chi riteneva inconcepibile non rispondere a quella provocazione con le maniere forti e chi, invece, era convinto che quella al terrorismo non fosse una guerra da combattere con le armi tradizionali, ma piuttosto sul terreno culturale, della mentalità, della strategia di lungo periodo.
Il dibattito
Un dibattito che in Italia è stato condotto, ad esempio, da due importanti e illustri firme giornalistiche, Oriana Fallaci da un lato e Tiziano Terzani dall'altro, ma dal quale in realtà nessuna parte del mondo è rimasta immune.Si possono ricordare, ad esempio, le parole del deputato britannico laburista contrario all'intervento George Galloway, che, a tre giorni dall'attentato, avvertiva l'Occidente che, se avesse sbagliato la risposta, le conseguenze sarebbero state disastrose. A 15 anni da quel terribile giorno, che cosa è successo? Chi aveva ragione?
Afghanistan
Da un lato, per tracciare un bilancio non si può non guardare ai Paesi dove quella «guerra al terrorismo» si è combattuta dispiegando armi e soldati e investendo ingentissime risorse economiche: Afghanistan in primis, ma anche l'Iraq. Purtroppo, ad oggi non possiamo dire che 15 anni di guerra siano valsi a qualcosa. Della situazione in Afghanistan ci siamo occupati più volte, sottolineando come addirittura il Presidente eletto sulla promessa di arrivare a un ritiro completo delle truppe a breve ha clamorosamente fallito. Barack Obama ha più volte sconfessato la parola data, dovendo constatare che il tentativo americano di stabilizzare il Paese si è rovesciato in un intervento di destabilizzazione, un caos da cui è davvero difficilissimo uscire. Addirittura, i talebani sono più forti di ieri, e i soldati americani sono persino riusciti a peggiorare le cose anche laddove i talebani parevano aver apportato qualcosa di buono: si pensi al traffico di droga, prepotentemente rifiorito in questi 15 anni (di cui già vi abbiamo raccontato).
Iraq
Quanto all’Iraq, non a caso è oggi un argomento caldo – caldissimo – della campagna elettorale americana, argomento su cui i candidati di entrambi gli schieramenti si attaccano a vicenda per il loro iniziale sostegno all’intervento, con un Donald Trump poco disposto ad ammettere che, seppure per un limitatissimo periodo di tempo, anche lui si era schierato per la guerra, e una Hillary Clinton che non perde occasione di fare ammenda per quel voto dato a favore del conflitto come senatrice dello Stato di New York. Ad ogni modo, il risultato del conflitto è sotto gli occhi di tutti: Saddam Hussein non possedeva l’arsenale chimico di cui l’Occidente lo accusava, e la sua maldestra defenestrazione (secondo lo stile americano) ha portato a una situazione di caos e instabilità che ha favorito l’attecchire dell’estremismo. In Iraq, quella che ai tempi fu catalogata a favore dell’opinione pubblica come «guerra al terrorismo» portò paradossalmente proprio alla diffusione del radicalismo e del terrore. Perché poi, proprio da quelle terre, si è fatto largo lo Stato islamico.
Più investimenti in sicurezza
Certo, qualche passo in avanti, in 15 anni, lo abbiamo fatto. In sicurezza, ad esempio. L’Occidente, dall’11 settembre in poi, ha investito molto di più in controlli e difesa interna, uno sforzo dai costi davvero impressionanti. Secondo un rapporto di The Atlantic, il budget annuale del Dipartimento di Sicurezza interna Usa è passato da 20,7 miliardi di dollari del 2001 a 64,6 miliardi del 2016; il budget dell’FBI da 3,3 miliardi a 8,8; gli addetti alla sicurezza aeroportuale da 16.000 sono diventati 46.000, e le squadre anti-terrorismo da 35 a 104; il numero di poliziotti in borghese sugli aerei da 33 a 5.000. Eppure, a giudicare dai tempi che stiamo vivendo, l’Occidente non è affatto immune dalla minaccia del terrorismo.
Lupi solitari ‘occidentali’ imbevuti di propaganda
E’ vero: rispetto a 15 anni fa, sarebbe (se non impossibile) molto difficile orchestrare un attentato in stile 11 settembre. Eppure, il terrorismo ha cambiato forma, ma non è certo morto. Gli attacchi che ha subito l’Europa negli ultimi tempi dimostrano come le organizzazioni jihadiste oggi puntino molto di più sulla propaganda, e riescano a sfruttare a favore della propria causa le «gesta» di lupi solitari non direttamente controllati dall'organizzazione. Oggi, il terrorismo è diventato un fenomeno sempre più globalizzato e «filializzato», che si incrocia con altri fenomeni, quali l’immigrazione, la presenza di seconde e terze generazioni non integrate e marginalizzate nelle periferie europee, scarse prospettive occupazionali e così via. Un terreno fertile per far sì che la forza della propaganda – aspetto sempre più approfondito e curato dall’Isis – faccia il resto.Oggi, i terroristi non sono elementi esogeni rispetto alla nostra civiltà: basti pensare al Belgio, vera culla europea del jihadismo, che è al decimo posto nel mondo per presenza di foreign fighters (secondo il recente rapporto Ispi, 589 ogni milione di abitanti, dei quali il 75% ha aderito all’Isis).
Foreign fighters: mai così tanti
Anche il fenomeno dei foreign fighters è decisamente cresciuto. Non del tutto sconosciuto in passato, negli anni ha raggiunto picchi mai visti. Tra il 1980 e il 2011, le guerre combattute in Paesi musulmani hanno attirato tra i 10.000 e i 30.000 foreign fighters; solo negli ultimi 5 anni (dall’inizio della guerra in Siria), secondo l’intelligence Usa almeno 30.000 foreign fighters hanno raggiunto, da oltre 100 Paesi, Siria e Iraq. Le tecniche di reclutamento, d’altronde, si sono evolute: basti pensare al ruolo del web e alla presa esercitata dalla propaganda, attraverso le strategie messe in atto da influenti ed esperti reclutatori.
Oggi i terroristi hanno anche uno stato
15 anni dopo l’11 settembre, possiamo dire che il terrorismo non sia stato sconfitto. Semmai, si è evoluto, ha cambiato forma. Il fatto che organizzazioni come al-Qaeda e altri gruppi jihadisti non siano diventati movimenti di massa è positivo, ma deve far pensare il fatto che siano sopravvissuti a guerre, soldati, bombe, ingenti investimenti di risorse. Addirittura, abbiamo assistito alla nascita dell’Isis, organizzazione che per la prima volta ha provato (riuscendoci) a stabilire una propria base territoriale, con una vera e propria organizzazione statale, in Iraq e in Siria.
Il ruolo dell'Occidente
Su un punto bisogna essere chiari: per quanto al giorno d’oggi il terrorismo islamico faccia (giustamente) paura anche all'Occidente, secondo il Global Terrorism Index 2015, solo lo 0,5% di tutte le morti causate dal terrorismo è oggi avvenuto in questa parte del globo. E nel mondo, il numero totale di morti per terrorismo, dal 2000 al 2015, è aumentato di ben nove volte. Nel solo 2014, secondo l'Ispi 93 Paesi hanno subito almeno un attentato terroristico. Il numero di attacchi è in costante crescita: mentre nel 2001 erano poco meno di 2.000, nel 2015 hanno sfiorato i 14.000, con un incremento del 180% nel solo periodo 2011-2015. Sono numeri che devono far riflettere, soprattutto a proposito di quella che è stata fino ad ora la strategia occidentale della «guerra al terrorismo». Una strategia caratterizzata da risposte spesso «di pancia», ma che ha mancato in visione sul lungo periodo. E che, come si vede, ha dato i suoi frutti avvelenati.
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