L'Islam offeso che risponde con violenza
La sparatoria in Texas è solo l'ultimo di una lunga serie di episodi simili. Dall'attentato a Charlie Hebdo, all'uccisione di Theo Van Gogh, la vicenda segue il copione dell'Islam «offeso», che reagisce con violenza a forme d'espressione occidentali volutamente provocatorie. Un copione che spinge a chiedersi se la libertà d'espressione debba avere dei limiti, e, eventualmente, quali.
TEXAS - «Sembravano gentili». Queste, le parole del vicino di casa dei fratelli Simpson, dopo che l'attacco all'evento dedicato alle caricature di Maometto, in Texas, ha disvelato la vera natura dei due. L'account twitter «Sharia is Light», da cui addirittura, 15 minuti prima dell'attentato, era stato lanciato l'aberrante hasthtag #TexasAttack, non lascia dubbi in merito al fanatismo dei fratelli. E quanto accaduto nello Stato americano ci riporta la memoria a episodi molto simili, in primis quello che ha terrorizzato non molti mesi fa la Francia e l'Europa, contro la redazione dello Charlie Hebdo.
La fatwa contro Salman Rushdie
Eppure, non solo il giornale satirico d'oltralpe è stato preso di mira per le sue posizioni critiche sull'Islam. Nel 1988, a scatenare la rabbia furono «I versetti satanici», un romanzo di Salman Rushdie. A causa delle allusioni (considerate offensive) nei confronti del Profeta, l'ayatollah Khomeini pronunciò una fatwa nei confronti dell'autore, decretandone la condanna a morte per blasfemia. Rushdie si salvò rifugiandosi in Gran Bretagna, dove ancora oggi vive sotto protezione. A distanza di venti anni la fatwa è stata reiterata con la seguente motivazione: «La condanna a morte dell'Imam Khomeini contro Salman Rushdie ha un significato storico per l'Islam e non è semplicemente una condanna a morte». Nel mirino dei fondamentalisti islamici finirono anche altre persone che hanno avuto a che fare con il libro: il traduttore giapponese Hitoshi Igari è stato ucciso, quello italiano, Ettore Capriolo, è stato ferito. Ferito anche l'editore norvegese.
L'uccisione di Theo van Gogh
Nel 2004, è stata la volta di Theo van Gogh, provocatorio regista olandese, eccentrico e dal cognome ingombrante. La «ragione» della sua morte, avvenuta per mano di un immigrato di seconda generazione, sarebbe stata l’offesa arrecata all’islam dal cortometraggio islamofobo di Van Gogh «Submission», incentrato sulla sottomissione delle donne ad avviso dell'autore praticata dall'Islam. Da allora, nonostante la folta comunità musulmana olandese sia ben integrata, il razzismo e l'intolleranza ha cominciato a montare, e il nazionalismo anti-islam è diventato, nel Paese, una realtà forte e ineliminabile.
Le vignette danesi
Nel 2005, è stato un giornale danese a scatenare l'ira dei fondamentalisti, e ancora per una questione di vignette. Quelle dodici illustrazioni satiriche sul profeta dell'Islam - tra cui una dove Maometto è raffigurato con una bomba al posto del turbante - hanno letteralmente fatto il giro del mondo, provocando un'ondata di violente proteste e reazioni indignate nel mondo arabo. L'intento era di dimostrare l'avversità della religione musulmana alla «libertà di espressione». Obiettivo, evidentemente, centrato in pieno.
L'attacco al consolato americano a Bengasi
E ancora: nel 2012, un gruppo di persone ha assaltato con granate e armi da fuoco il consolato americano di Bengasi, nell'est della Libia, causando la morte dell'ambasciatore Usa e di tre funzionari. La violenza sarebbe stata scatenata da un film ritenuto offensivo nei confronti dell'Islam, intitolato "Innocence of Muslim» (L'innocenza dei musulmani). Insomma, quanto accaduto in queste ore e qualche mese fa alla redazione dello Charlie non è un unicum nella storia dei rapporti tra occidente e mondo musulmano, e, proprio per questo, impone una riflessione. Una riflessione non semplice da condurre, perché interpella un valore sacrosanto e fondante la stessa democrazia: la libertà d'espressione. Una libertà irrevocabile, da difendere ad ogni costo, ma anche, forse, da usare con raziocinio.
E' giusto porre limiti alla libertà di espressione?
E se il presupposto è che la violenza non sia mai giustificabile, in primis di fronte a un'opinione, è lecito perlomeno chiedersi se, alla libertà di espressione, sia necessario porre almeno il limite del rispetto verso la dignità e i valori altrui. E' una domanda senza risposta, che spalanca un dibattito infinito. Secondo alcuni, nessun margine deve essere posto al diritto e alla libertà, e nessuna conseguenza dovrebbe avere il praticarli. Eppure, se portata all'estremo, tale argomentazione mette in discussione la stessa esistenza dei reati di opinione. Fino a che punto è lecito che un'opinione sia reato, e in base a che cosa condannarne una e risparmiarne un'altra? Come si vede, la questione non è affatto banale. Il discrimine potrebbe forse essere segnato dalla buona pratica dell'immedesimazione: se qualcuno si comportasse così con la mia fede, con il mio credo, mi sentirei offeso? Tale domanda rimanda all'argomentazione del «pugno» di papa Francesco, che, ai tempi dell'attacco allo Charlie, fece tanto scalpore. Un'argomentazione che di certo non intendeva giustificare la violenza. Ma che spingeva a riconsiderare i nostri comportamenti, specialmente quando, in nome della nostra libertà e del nostro diritto, rischiamo di calpestare o di ferire l'identità altrui.