26 aprile 2024
Aggiornato 07:00
Le tre grandi crisi dal 1987 a oggi

Wall Street a un passo dal precipizio: i numeri che spiegano il crollo di Borsa prossimo venturo

Dal culto di Mammona all'adorazione del monetarismo: l'irresistibile ascesa del banchiere Alan Greenspan che ha portato alla bolla finanziaria più grande di tutti i tempi

NEW YORK - Non avvicinatevi al mercato borsistico. Non comprate azioni. Non comprate obbligazioni. Lasciate perdere i fondi a forte componente di rischio. Se vi piace il rischio dedicatevi ad attività meno pericolose del mercato azionario, tipo la roulette russa, il paracadutismo con tuta alare, la nord del K2 in inverno. In questi giorni Wall Street sta battendo ogni record, inspiegabilmente da un punto di vista razionale. Da un punto di vista irrazionale tutto invece è perfettamente coerente: solo che ci troviamo nel peggior momento delle storia finanziaria recente, probabilmente simile alla famosa «crisi dei tulipani» del XVII secolo, e la grande correzione incombe. Non sarà l’ineludibile implosione del capitalismo che si aspetta, e vagheggia, dal 1848, ovviamente. Non si tratta di millenarismo finanziario, quindi: nelle prossime righe si tratterà quindi non di eventi eccezionali, bensì della normalità ciclica in cui non già l’uomo vive. Ovviamente amplificata dalla potenza tecnologica che la nostra specie è riuscita ad accumulare nel tempo. Nei prossimi mesi si prospettano ottime cause che permetteranno di sfoltire un bel po’ di umanità, finita nella rete della speculazione degli ultimi otto anni, attratta da media i cui editori sono esclusivamente finanzieri, banchieri o nulla facenti. Le crisi finanziarie sono sempre pilotate: sono come le reti che vengono gettate dai pescherecci: più rimangono a lungo nel mare più si gonfiano di pesce.

All’origine della madre di tutte le bolle
Alan Greenspan è un signore oggi anziano, e sempre arzillo. Vive negli Stati Uniti e per vent'anni è stato l’uomo più potente del mondo. Non un presidente degli Stati Uniti, che passa, fa qualcosa e dopo quattro o otto anni se ne va. No, lui è stato il capo della Fed e il papà del mondo finanziario per come lo conosciamo oggi. Ovviamente intorno a lui, prima e dopo nel tempo, altri teorici, soprattutto della Scuola di Chicago, hanno buttato le basi: ma lui, come nessun altro, ha plasmato il mondo per come lo conosciamo oggi. Oggi è un pensionato, dato che il suo lavoro – fare il presidente della Federal Reserve, ovvero fare il banchiere dei banchieri – è terminato nel 2007. Le sue idee sono sempre state semplici, anche se è caduto in errori clamorosi. In sintesi questa è la sua teoria, poi messa in pratica: fare soldi dai soldi per fare soldi, fare soldi dai soldi per fare soldi. Altre prospettive non esistono. Queste parole ricorderanno, a qualcuno, un celebre incipit di Giorgio Bocca, penna cristallina dell’Italia industriosa degli anni Sessanta. La differenza è che Bocca descriveva e analizzava il «fare soldi per fare soldi per fare soldi» attraverso il «lavoro furibondo».

Il motto di Alan Greenspan: «Fare soldi dai soldi per fare soldi»
Oggi i soldi, grazie a Greenspan e qualcun altro, si fanno senza fare nulla: anzi, il capitale è svincolato dal lavoro. Che disprezza e rifiuta. La carta straccia a cui noi diamo attraverso un incantesimo il «valore» che ha non ha più relazione con la materia: almeno non a Wall Street. Il buon Alan Greenspan, un economista di origini ebree, probabilmente crede in un principio escatologico, lisergico: il denaro è una divinità in sé e per sé, che si autoriproduce da se stessa. Per questa ragione il suo lavoro come capo della Federal Reserve coincide con la più grande ascesa del mercato finanziario più importante del pianeta, la mitologica borsa di New York, il cui andamento, manco fosse il volubile carattere di un dio pagano, viene analizzato, studiato e raccontato come nessun altro evento.

Il culto di Mammona
Alan Greenspan non è stato il primo a teorizzare, e mettere in pratica, la scissione tra capitale e lavoro: con lui una pletora fanatica che è riuscita a portare a valore universale il «culto di Mammona». Greenspan quindi è solo l’ultimo, anche se il più potente, di una infinita serie di sacerdoti. Il termine «Mammona» deriverebbe dalla lingua aramaica, ma è di incerta etimologia; il Mamon solitamente veniva tradotto come il "tesoro sotterrato». Alcuni studiosi hanno suggerito di collegarlo alla radice ebraica 'mn (da cui proviene il termine amen) che indica fiducia, affidamento; ma altri propendono per l'ebraico "matmon", che significa, appunto, ricchezza, o tesoro. Altra ipotesi è dall'ebraico mun (provvedere il nutrimento). Il significato dei diversi campi semantici converge comunque nel generico concetto di sicurezza materiale. Infatti, il termine ebraico è divenuto sinonimo di "soldi». Il termine greco mamonas lo si ritrova poi nel «Discorso della Montagna» in Matteo 6,24: «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a mammona». Anche S. Agostino affrontò il culto di Mammona: «Facite vobis amicos de Mammona iniquitatis», ovvero «Vi fate amici con le iniquità di Mammona».

«L'idolatria finanziaria»
Recentemente è stato pubblicato un bel libro, scritto dal giornalista Luigi Cupertino: «L’idolatria finanziaria e il culto di Mammona». Un libro difficilmente confutabile, di cui vi proponiamo l’introduzione: «Questo potere distruttivo che minaccia il mondo è, appunto, quello del capitale volatile, ossia del capitale finanziario, per sua natura tendente all’autoreferenzialità – leggasi al profitto usuraico da interesse monetario smodato – e per questo motivo, trasformatosi, da iniziale strumento a servizio dell’economia reale e produttiva (quella benefica per l’umanità perché produce beni concreti e di condivisione sociale) in un potere nichilista che annienta l’essere umano sia nella sua essenza antropologica – vi è una stretta connessione, come avevano capito i Padri della Chiesa ma anche uno Shakespeare e più di recente un, appunto, Ezra Pound, tra usura e peccato contro natura – sia nelle sue relazioni sociali, imbarbarendo tutto il panorama dell’umano».

1987-2000-2007. E poi?
Alan Greenspan fu nominato da Ronald Reagan alla presidenza della Federal Reserve nel 1987, un attimo dopo l’esplosione di quello che viene ricordato come il «venerdì nero». In realtà quella crisi, come si evince dal grafico, fu un piccolo starnuto in confronto a cosa è accaduto successivamente. E soprattutto rispetto cosa ci attende. Il banchiere dei banchieri lo si ricorda anche per il suo fanatico liberismo: lui è il papà dello smantellamento del sistema previdenziale pubblico statunitense, privatizzato, e soprattutto delle politiche monetarie che hanno creato la bomba dei subprime. Torniamo al 1987, al famoso lunedì 19 ottobre. È un giorno come un altro nel mondo, anche se qualche scricchiolio si avverte sui mercati finanziari. Il mondo era molto diverso da come lo conosciamo oggi: ideologicamente e meterialisticamente. Esistevano i due blocchi contrapposti e di globalizzazione ne parlavano pochissimi pionieri. Il denaro era legato alla produzione, le regole finanziarie erano ferree, e soprattutto la potenza tecnologica che oggi domina le nostre vite muoveva i primi passi. Improvvisamente, a New York, giunge il tracollo. In un solo giorno Wall Street perde il 22,8% della propria capitalizzazione, oltre 500 miliardi di dollari evaporano nel più grande crollo giornaliero della storia. Ma ciò che impressiona di quella crisi è la sua irrisoria portata rispetto ad oggi. Basta guardare il grafico sottostante per capire la portata di quella batosta: nulla. Non si vede nemmeno. A scatenare gli investitori, che furono travolti dal panico, fu soprattutto la mancanza di stop loss, ovvero la sospensione dei titoli per eccesso di ribasso. Da allora le giornate più nere per i mercati hanno registrato perdite massime nell’ordine del 7%. Il mercato americano, che arrivava dal periodo di fortissima crescita sia economica che borsistica degli anni Ottanta, impiegherà appena due anni a riagguantare e superare i livelli pre crisi.

Bolla della New Economy
La crisi del 2000 è riconducibile all’esplosione della bolla dei titoli della new economy. Il ciclo iniziò nel 1994 con la quotazione di Netscape, la società che sviluppò il primo browser commerciale per internet, e terminò a cavallo tra il 2001 e il 2002, quando, ad aggravare una discesa che era già conclamata da diversi mesi, giunse lo schianto sulle Torri Gemelle di New York di due aerei. Gli anni che precedettero l’esplosione della bolla si caratterizzarono per la crescita di titoli farlocchi, magari solo in virtù di una denominazione riconducibile al mondo di internet. Accadde anche in Italia. Lo scoppio della bolla speculativa finanziaria portò a un rapido crollo degli indici del Nasdaq, che dal valore record del 10 marzo 2000 di 5.132,52 punti perse il 9% in tre giorni, innescando poi la caduta delle quotazioni che portò alla scomparsa di molte dot.com.

La crescita senza precedenti tra le due crisi
Una rapida occhiata all’andamento storico di Wall Street evidenzia la crescita senza precedenti avvenuta tra le prime due crisi. L’indice Dow Jones quintuplica il suo valore tra il 1995 e il 2001. Nessuno lo ricorda ma fu lo stesso Alan Greenspan, nel 1999, a dire: «È difficile valutare se il rialzo della Borsa negli anni Novanta sia una bolla insostenibile. Generalmente le bolle vengono percepite solo a fatti accaduti. Individuare una bolla in anticipo implica ritenere sbagliato il giudizio di centinaia di migliaia di investitori ben informati». La correzione che seguì queste profetiche parole fu, in tre anni, del 30%. In Italia pochi ricordano ancora questi nomi: Ciaoweb, Kataweb, Tin.it, e molti altri titoli che espressero valori fantasiosi. Tiscali, ad esempio, raggiunse una capitalizzazione pari a quella della Fiat. Idem E.Biscom, che raggiunse una capitalizzazione pari a 1,6 miliardi di euro. Solo in Italia circa mille miliardi di euro passarono dalle tasche di molti a quelle di pochi. Si pensi a quel risparmiatore che nell’autunno del 1999 comprò un’azione Tiscali a 1200 euro. I profitti delle aziende erano inesistenti e in generale si tendeva a dare fiducia a promesse degne della penna di Collodi. L’indice Nasdaq, ovvero dove si annidavano i peggiori bidoni, scese da 5138 punti a 1500 in un anno e mezzo. Nel 2004 il 50% delle «dot.com» sopravvivevano con quotazioni pari a frazioni millesimali dei massimi raggiunti. Di quel tempo si può dire che siano sopravvissute, e prosperate, solo Amazon ed eBay.

La bolla dei mutui subprime
Passano sette anni dal capitombolo della «new economy»: è il 2007 e Wall Street è di nuovo gonfia come una rana, pronta ad esplodere. Nel tempo di un lustro, senza una reale ragione industriale, il maggiore indice della borsa di New York passa da 7591 a 13895. Il mercato è invaso di dollari a buon mercato, e il settore finanziario spinge come mai prima. Il resto è cosa nota: giungono i fallimenti delle maggiori banche mondiali e quelle che non spariscono vengono tenute a galla solo grazie ad ricapitalizzazioni pubbliche, creazione di bad bank dove finiscono i crediti deteriorati (un vero mostro di cui nessuno ancora oggi si cura). Diventa patrimonio comune l’esistenza di un mondo sommerso ed enorme, quello dei derivati. Che sono cresciuti in virtù del nulla, ammantati da un velo sacro. Crolla tutto insieme e, da un punto di vista industriale, rimane tutto a terra. L’economia reale rimane asfittica e trova solo parziale sostegno da un ripresa centrata su lavori a basso scadenti, centrati a loro volta prettamente sui servizi. Lo scollamento tra capitale e lavoro è enorme, senza precedenti.

La «grande recessione»
Ad oggi, la crisi del biennio 2007-2008 viene conosciuta come «la grande recessione». La causa, provata, sarebbe duplice: la deregolamentazione del settore finanziario, unita alla più classica bolla immobiliare. Nel tentativo di fermare la bolla, la Fed aumentò i tassi di interesse, portandoli dal'1,5% al 5,25%. La Banca centrale, dopo aver drogato il sistema, si accorse che i dollari stampati e messi in circolazione erano drenati alla fonte dal settore finanziario. Nel 2006, come effetto immediato, il numero dei pignoramenti e delle insolvenze si moltiplicò, soprattutto per quanto riguarda gli acquirenti di subprime, colpiti in particolare dall'aumento improvviso delle rate dei fidi. La bolla immobiliare a quel punto esplose facendo precipitare il prezzo delle case e innescando un'ondata di vendite che mandarono in rovina molti risparmiatori e molti istituti di credito (oberati anche dai prestiti ponte elargiti alle private equity provocando un blocco del sistema finanziario americano). Il crollo del Dow Jones fu nell’ordine del 50% in due anni: passò da quota 14.000 a circa 7000. Sembra passato un secolo, nemmeno più ci si ricorda di questa condizione. La mondializzazione dei commerci intanto avanzava: la produzione nei paesi occidentali veniva smantellata, al suo posto la delocalizzazione. Un’enorme fuga di capitali produttivi si stava generando: dall’occidente industrializzato verso i paradisi del lavoro, Cina in primis. I paesi più sviluppati, e democratici, esportavano capitali e lavoro, mentre importavano disoccupazione e deficit pubblici sempre più enormi. Che per altro non venivano più coperti dalle rispettive banche centrali, i cui compiti si erano sciolti, soprattutto in Europa, dentro nuovi immensi aggregati di potere finanziario: Bce, agenzie di rating e mega complessi bancari.

Oggi, 2017
Dopo dieci anni di crisi economica, conosciuta anche come «il secolo perduto», l’indice Dow Jones ha raggiunto quota 20504 punti. Ha quindi quasi triplicato il suo valore dai minimi del 2009. E' come se la popolazione degli Stati Uniti avesse triplicato il proprio patrimonio in otto anni. Ovviamente non è così. Ovviamente siamo nuovamente di fronte ad un bolla, enormemente più gonfia delle due che abbiamo precedentemente descritto. Non bastano le quotazioni supersoniche di Facebook e Google per giustificare tali livelli, e nemmeno i loro ottimi affari, che per altro sono forieri di super benessere solo per una ristretta élite. Semplicemente le quotazioni della Borsa di New York sono figlie dell’ideologia sopra citata: «fare soldi dai soldi per fare soldi, fare soldi dai soldi per fare soldi». È un mito che non tramonterà mai. Dopo l’esplosione di questa bolla, prossima, un’altra se ne formerà. Si possono perfino intravedere delle costanti: ad ogni raddoppio di capitalizzazione corrisponde una correzione del 30-40% dai massimi. Nel caso della bolla attuale, però, la crescita dai minimi del 2009 ha quasi raggiunto quota 200%: il mercato di New York scenderà, senza alcun dubbio, sotto quota 12.000 quando giungerà la "fase orso", ovvero la fase in cui i mercati vengono colti dal panico della vendita.

Perché è accaduto tutto ciò?
Le ragioni sono antiche: probabilmente partono dalla fine degli accordi di Bretton Woods voluta da Nixon nel 1971. Una serie di fattori si somma, stratificandosi, ma più di ogni altra cosa hanno influito due fattori: la globalizzazione economica e la politica monetaria ultra espansiva che ha connaturato il ventennio di dominio di Alan Greenspan quando era a capo della Fed. Altri uomini sono seguiti, si pensi a Ben Bernake, ma il solco culturale che ancora viene difeso a spada tratta, nonostante le catastrofi, è suo. È interessante notare che l’ultima grande bolla si forma grazie alle politiche monetariste ultra espansive delle banche centrali: Fed e Bce in primis. Buona parte degli stati occidentali non può che fronteggiare deficit in successione: non già per le spese pubbliche «generose» – ormai buona parte dei servizi sono liberalizzati e lo stesso concetto di «stato» si sta liquefacendo – bensì perché il continuo contrarsi dell’economia reale, il famoso Pil, non dà più ai governi la possibilità di avere entrate fiscali adeguate. A questo si sommi la fuga dei grandi patrimoni e il gioco è fatto. I debiti pubblici sono divenuti quindi insostenibili. Per ovviare a tutto ciò Europa e Usa hanno deciso di finanziare l’acquisto diretto del debito dei vari stati. Ma quanto è accaduto è stato nettamente diverso: immensi capitali, nell’ordine di migliaia di miliardi di euro e dollari, sono stati drenati dal settore finanziario. Che ovviamente li ha utilizzati non tanto per finanziare l’economia reale, unico strumento in grado di far respirare il bilancio degli stati, nonché delle famiglie, bensì per gonfiare ancor più la bolla, che oggi ha assunto dimensioni mostruose. Nel 2014, ovvero quando il Dow Jones valeva il 20% meno di oggi, il rapporto tra prezzo e guadagno, uno degli indicatori fondamentali per comprendere quanto un’azienda sia sana, era pari a 16: le azioni di un’azienda venivano comprate ad un valore 16 volte superiore i suoi utili. Questo prezzo è molto vicino al massimo storico, toccato nel 2007, vale a dire poco prima che tutto crollasse. Oggi tale valore è salito a 20. E cosa pensare dell’evoluzione dell’economia reale? Nel 2014 la ricchezza borsistica complessiva degli statunitensi giunse a quota 80.700 miliardi di dollari. Il problema è che quattro americani su cinque non hanno nemmeno idea di cosa sia il Dow Jones, mentre il 10% della popolazione possiede l’80% delle azioni quotate a Wall Street. Poi, in via indiretta, tutti sono coinvolti, dato che il sistema sociale statunitense, in primis i fondi pensione, vive solo se la bolla finanziaria si gonfia sempre di più.

Quando inizierà il tracollo?
Come spiegato in precedenza i mercati finanziari necessitano di carburante, e la benzina migliore non può che essere quella pubblica. Le politiche monetaristiche ultra espansive sono la condizione sine qua non affinché la bolla non esploda violentemente. Non a caso ogni riunione della Fed è temuta, e ogni piccolo timore di rialzo dei tassi viene preceduto da funeste sedute borsistiche che hanno il compito di minacciare chiaramente il mondo: «Se alzate il tasso, noi facciamo crollare tutto». Le ultime parole di Janet Yellen, capo della Fed, fanno presagire che presto potrebbe esserci un serio aumento dei tassi di interesse. Dall’altra parte dell’oceano Mario Draghi fa intendere la stessa cosa: anche perché vi sarebbero spinte inflazionistiche, che nell’era del neo liberismo sono viste come un demonio. I rialzi negli Stati Uniti, fanno capire gli analisti, potrebbero essere ben due. Ci provò Ben Bernake nel 2013 a ristabilire un contatto minimi tra economia reale e finanza, minacciando anch’egli un rialzo dei tassi, ma non vi riuscì. L’abrogazione di Donald Trump della legge Dodd-Frank sarà invece ininfluente. Verrà abolita, o riformata, una legge che già non garantiva alcun controllo, e gli indici di borsa gonfiati all’inverosimile sono lì a provarli.

«Per uscire da una catastrofe bisogna attraversare una catastrofe più grande»
Il mercato finanziario, ovvero quel 10% di popolazione la cui unica attività è la speculazione drogata dai soldi dello stato – altri soldi non ne esistono, soprattutto da quando il plusvalore scaturente dal rapporto capitale/lavoro è venuto meno dall’eutanasia di quest’ultimo – è consapevole di essere troppo grande per essere attaccato. Ma la sua ipertrofizzazione, unita alla cancellazione della classe media prossima ventura, crea tensioni sociali che prendono vie molto pericolose, al momento incanalate dentro il cosiddetto «populismo», ovvero l’ultima forma civile di dissenso verso l’egemonia finanziaria. Qualora dovessero fallire anche queste alternative politiche, il passo successivo probabilmente prenderebbe una deriva difficilmente controllabile. Al momento quindi il sistema non collassa, come dovrebbe, perché si sta seguendo pedissequamente una celebre legge-teoria, quella della catastrofi: per uscire da una catastrofe la via più semplice da percorrere è quella che ti porta dentro a una catastrofe più grande. Fino alla catastrofe finale.