19 marzo 2024
Aggiornato 05:30
Dopo le tangenti a Milano una riflessione sul sistema degli appalti

Perché il codice degli appalti è inutile, e vince sempre il sistema del massimo ribasso

Le opere pubbliche sono una voragine di denaro che produce malamente e lentamente. Milano, Roma, Torino e le altre, storia di come il nuovo codice degli appalti voluto da Cantone non ha per nulla portato a un sistema più sano

Uno dei tanti cantieri infiniti in Italia
Uno dei tanti cantieri infiniti in Italia Foto: Shutterstock

MILANO - Non sapere resistere alla tentazione di vedere per soffrire. Deve essere questo il moto dell’anima che porta a tentare la vana impresa di aprire l’enorme documento che prende il nome di «codice degli appalti». Il linguaggio è incomprensibile al di là di ogni limite culturale, e tornano in mente i latinorum manzoniani, buchi neri di significato inventati per confondere, ingarbugliare, fare delle regole che portano all’assegnazione di un appalto pubblico un inestricabile gomitolo. Eppure la parola d’ordine dei nostri tempi è «semplificazione»: perché la situazione è semplice. Le opere pubbliche, un po’ tutte, sono una voragine di denaro che produce malamente e lentamente. Dal tombino al tunnel di base, dal ponte allo stadio, è tutto un magna magna, direbbe il popolo con la scarpa grossa e il cervello fino.

60 miliardi la corruzione in Italia, ovvero il 4% del Pil
Alcuni numeri, per dare un’idea della situazione. Numeri che, ahinoi, girano nelle cancellerie europee, quelle dove andiamo a mendicare «flessibilità» sui conti pubblici. Rappresentano il 15,9% del Pil italiano, e in questa enorme massa monetaria (pubblica) vi sono annidati 60 miliardi di corruzione, ovvero il 4% del Prodotto interno lordo, pari al triplo della manovra economica che il governo sta progettando. Questo per quanto riguarda i costi diretti. Ma la parte maggioritaria del denaro pubblico dilapidato va sotto la voce «sprechi-inefficienza»: ritardi amministrativi, pessimo funzionamento delle procedure, inefficienza o inutilità delle opere, utilizzo di materiali scadenti. Tutto questo ammonta al 40% dei costi dell’appalto. La somma tra costo delle opere pubbliche, corruzione diretta e costi indiretti raggiunge il 21,5% del Pil italiano. Questo accadeva fino al 2013, anno in cui si decise di rivedere al normativa e scrivere così un nuovo codice degli appalti.

Il meccanismo del codice degli appalti
Il meccanismo era apparentemente collaudato: a fronte di tangenti veniva assegnato un appalto pubblico al massimo ribasso, che poteva poi essere spacchettato in subappalti. Le variazioni in corso d’opera successive, legate a qualsiasi evento potesse incidere sulla prosecuzione dei lavori, portavano a far lievitare il costo complessivo. Qui sorge una prima, grande distinzione. Da un punto di vista economico monetario la voragine nei conti pubblici non è data dalle mazzette che passano da un imprenditore a un assessore, bensì dai continui aumenti di costo successivi. Per dare un’idea del fenomeno è necessario ricordare che un’infrastruttura pubblica, in Italia, ha un costo definitivo tre volte maggiore di quanto preventivato.

Le 10 criticità del codice degli appalti secondo l'Anac
Un'analisi dettagliata prodotta dall’Anac nel 2014 illustrava una realtà ben strutturata, ed inquietante. Ecco le dieci principali criticità:

  1. carente istruttoria sull’ammissibilità della variante

  2. motivazioni non coerenti

  3. varianti «in sanatoria»

  4. errori di progettazione

  5. variazioni falsamente migliorative, variazioni in diminuzione proposte dall’impresa

  6. non coerenza tra la consistenza della variante e i tempi aggiuntivi concessi, assenza di nesso funzionale tra le opere in variante e quelle di progetto,

  7. tempistica della introduzione della variante

  8. utilizzo del ribasso d’asta,

  9. variazioni sostanziali

  10. commistione tra varianti e opere di completamento.

Su 90 casi presi in esame, una campione microscopico, ben 21, presentavano criticità rilevate, per altro «coperte» da una normativa volutamente opaca e astrusa.

Raffaele Cantone e il nuovo codice degli appalti
Per riuscire a rompere il meccanismo della corruzione è stato approvato dal governo il nuovo codice degli appalti, fortemente voluto dal magistrato Raffaele Cantone. Idolatrato o osteggiato, Cantone ha prodotto un lavoro che ha scatenato diverse polemiche. Il passo che ha destato maggiore interesse è l’articolo 36, che recita: i lavori tra i 40mila e 1 milione di euro, dice la legge, possono essere affidati con procedura negoziata senza bando. Doveva essere più bassa, pari a cinquecento mila euro, ma fu alzata all’ultimo provocando diverse polemiche, perché il tal modo la normativa non cambia per l'80% degli appalti. L’altro passaggio finito sotto osservazione è inerente al meccanismo del massimo ribasso. La valutazione sulla proposta migliore è affidata a una commissione giudicatrice composta da esperti del settore. Per garantire la massima trasparenza in questo processo, i commissari saranno estratti a sorte da un elenco preparato dall’Anac: ma questo vale solo per le gare con importi che superano i 5,2 milioni, pari al 5% del totale. L’Anac però invita gli enti appaltanti pubblici a creare un normativa locale che porti tale soglia a un milione di euro.

Una riduzione pesante del numero delle gare d'appalto
La complessificazione che ha portato il nuovo codice degli appalti ha creato un effetto boomerang nel settore, che si è fermato: vi è stata una «riduzione pesante» del numero delle gare, che lo stesso Cantone «non ritiene giustificata». Le pubbliche amministrazioni di fronte al pericolo intrinseco di una normativa sempre più farraginosa e astrusa – il nostro codice vanta ben duecento articoli contro i cinquanta di quello britannico – hanno deciso di rimandare l’assegnazione dei lavori per non incorrere in pericolose diatribe penali.

E intanto i costruttori chiedono a gran voce la liberalizzazione dei subappalti
E in questa situazione tipicamente italiana si instilla la pressione delle organizzazioni dei costruttori che chiedono la liberalizzazione dei subappalti: oggi si può subappaltare fino al 30% dell’importo complessivo di aggiudicazione. Una liberalizzazione, par di capire, che inficerebbe le norme del nuovo codice che tentano di arginare il fenomeno corruttivo. Fenomeno che si attesta ad ogni livello, con accuse reciproche che si rimbalzano gli operatori impiegati nelle grandi opere e piccoli. I primi che vedono nell’assegnazione «diretta», o discrezionale, la voragine vasta, i secondi che puntano l’obbiettivo verso fenomeni mediatici più impattanti come Tav, Mose, Expo, autostrade deserte, etc etc. Intanto la corruzione prosegue, più o meno sempre con lo stesso meccanismo: l’appalto viene assegnato ad una ditta, previa concessione di contributi, sconti, ristrutturazioni, regali o cosa altro. La ditta subappalta al altri che di solito fanno parte di una rete di società afferenti alla prime. Le variazioni in corso d’opera fanno così arricchire tutti.

Senza controlli non vale alcun regolamento
Commentava qualche tempo fa Pier Camillo Davigo, storico magistrato del pool Mani Pulite: «Il nuovo codice appalti è tutta roba che non serve a niente. Da anni si scrivono normative sugli appalti con regole sempre più stringenti che danno fastidio alle aziende perbene e non fanno né caldo né freddo a quelle delinquenziali. Non serve fare normative sugli appalti, serve fare operazioni sotto copertura, con agenti infiltrati che fingono di essere imprenditori. Per contrastare la corruzione bisogna mandare i poliziotti a offrire denaro ai politici e arrestare chi accetta. Lo diceva anche Cantone, ma ora ha smesso di dirlo. Perché? Lo capisco. E non aggiungo altro…».

E poi ci chiediamo perché l'Europa storce il naso se chiediamo più flessibilità...
Davigo parla di una liberalizzazione di fatto, ovvero uno dei pilastri su cui viaggia l’economia neoliberale. Laddove vi siano delle normative che pongono limiti, la via più semplice è tagliare le risorse ai soggetti preposti al controllo. È una tipicità, questa, della prevenzione sull’infortunistica nei posti di lavoro, o sui danni ambientali. Ma vale anche per i codici degli appalti, che risultando privo di fondi può darsi ogni tipo di regola immaginabile: risulterà inapplicabile nella realtà delle cose, una sorta di inarrivabile categoria dello spirito. Così, vedendo un quadro siffatto, divengono perfino comprensibili le irritate reazione provenienti dalla Bce o dall’Unione europea quando il governo italiano chiede «flessibilità sui conti». Perché risulta ai più evidente che manca la volontà di affrontare il problema della corruzione, e la voragine degli sprechi che ancora caratterizzano la nostra economia pubblica.