20 aprile 2024
Aggiornato 14:30
Per la Lega una bolletta più bassa non basta alla ripresa

Borghi: il petrolio non basta, ci vuole la svalutazione della moneta

Al DiariodelWeb.it, il responsabile economico della Lega Nord Claudio Borghi parla dell'attuale vertiginoso calo dei prezzi del petrolio, causato, in primis, dal nuovo preminente ruolo da produttore assunto dagli USA. E delle sue conseguenze a livello nazionale e internazionale.

ROMA – Il prezzo del petrolio tocca i suoi livelli minimi da cinque anni a questa parte, arrivando persino a scendere sotto i 60 dollari a barile. Al centro della vicenda, diverse società statunitensi specializzate nell’estrazione dello shale oil, cioè il greggio contenuto in sabbie bituminose o rocce argillose. Tale processo, esploso negli ultimi anni, ha assicurato agli Stati Uniti una sostanziale autonomia energetica e una produzione che si avvicina ormai ai 9 milioni di barili al giorno, provocando dunque un repentino riassetto degli equilibri economici internazionali. Abbiamo chiesto a Claudio Borghi, responsabile economico della Lega Nord, quali sono le cause e le conseguenze, a livello nazionale e internazionale, di tale situazione. E quali le sue aspettative in proposito

In questi giorni si parla molto di prezzo del petrolio, ai minimi da cinque anni a questa parte. Ci hanno sempre detto che il prezzo alto dell’energia fosse un fattore negativo per lo sviluppo di un Paese importatore come il nostro; ora, invece, la discesa del prezzo del petrolio sembra destare non poche preoccupazioni. Come mai, cosa sta accadendo?
«Per l’Italia questo fenomeno non è affatto un problema, e non lo è nemmeno per il Giappone, che – non dimentichiamo – si è potuto permettere, avendo sovranità monetaria, di spegnere tutte le sue centrali nucleari e di importare energia», spiega Borghi. «Il problema della discesa dei prezzi del petrolio è, invece, rilevante per i Paesi produttori, e insegna delle buone cose sulla svalutazione e sulle differenze tra un Paese trasformatore e un Paese produttore. Un Paese produttore di materie prime subisce il calo eventuale dei prezzi delle materie prime e non può fare nulla per contrastarlo: ad esempio, vediamo che in Russia il rublo sta scendendo molto, ma non per questo il petrolio diventa più conveniente, proprio perché non è prezzato in rubli. Viceversa, per un Paese come noi, se scendesse il valore della nostra moneta, i nostri prodotti, prezzati con la nostra valuta, diventerebbero più convenienti. Quindi, la questione attuale del petrolio è una buona lezione di economia: dimostra che non tutti i  Paesi sono uguali e non tutte le economie reagiscono allo stesso modo ad un determinato fenomeno», conclude.

Quali sono i motivi di questo calo?
«I motivi del calo dei prezzi sono sotto gli occhi di tutti», sottolinea Borghi. «Nel momento in cui noi abbiamo un importatore del peso e dell’importanza degli Stati Uniti che diventa autosufficiente, a causa delle nuove scoperte legate allo shale oil e alle nuove tecniche di produzione, cala la domanda e dunque calano i prezzi».

Quali ritiene possano essere gli effetti, a livello nazionale e globale, della situazione?
«Non credo che al momento ci siano, per l’Italia, degli effetti particolari», risponde il responsabile economico del Carroccio. «Certamente, però, ci sono delle economie che fino ad ora hanno goduto di elevati profitti derivanti dal prezzo alto del petrolio, che ora potrebbero rimetterci; penso ai Paesi arabi, o ai Paesi sudamericani: il primo che mi viene in mente è il Venezuela».

A fronte di tale situazione, l’Opec potrebbe non essere più in grado di dettare il ritmo dei prezzi come è avvenuto in passato?
«L’Opec ha sempre avuto un po’ di difficoltà nel coordinarsi, perché non tutti i Paesi sono dalla stessa parte», ricorda Borghi. «In ogni caso, è probabile che reagisca con un taglio della produzione: è evidente che la manovra non sarebbe risolutiva, perché tagliando la produzione per far salire i prezzi, i Paesi produttori in ogni caso guadagnerebbero di meno», spiega.

Attualmente, però, l’Opec ha stabilito di mantenere la produzione inalterata a circa 30 milioni di barili al giorno. Come mai?
«Certo, dal loro punto di vista sarà difficile trovare una soluzione vantaggiosa, avendo comunque un aumento di offerta», spiega. «In ogni caso, dato che in Giappone Abe ha stravinto le elezioni, magari con meno fretta del previsto data la discesa dei prezzi, mi aspetto che in futuro il Giappone riaccenda le sue centrali. A quel punto ci sarebbe ancora meno domanda: meglio per noi che siamo importatori, ma saranno guai per chi produce», conclude Borghi.