Perché la crisi dei migranti sta distruggendo la Svezia (e farà lo stesso con gli altri paesi Ue)
La Svezia oggi è sull'orlo di una crisi di legalità, come denuncia il direttore delle ricerche sul terrorismo presso l'Università della difesa svedese, Magnus Ranstorp
STOCCOLMA – L'Unione europea vacilla sotto il peso della crisi dell'immigrazione di massa che sta mettendo alla prova l'intero continente e cambierà per sempre la nostra società. Ma non tutti sanno che perché i migranti vengano integrati nel tessuto produttivo di un Paese occorrono almeno dai cinque ai quindici anni. In questo arco di tempo, prima di diventare una risorsa economica e sociale per il luogo che li ospita, gravano sull'economia del territorio. Lo rivela un articolo pubblicato su Global Research che lancia l'allarme, sottolineando che questo peso enorme che va a gravare sulle economie di Paesi già penalizzati dalla crisi economica e dall'austerità euro-indotta può trasformarsi in una bomba sociale. L'articolo in questione prende ad esempio il caso svedese: la Svezia è stato il paese che, al culmine della crisi dei rifugiati, ha accolto più immigrati per abitante di ogni altra nazione europea. Ma il 7 aprile scorso è stata colpita da un attacco terroristico realizzato da un immigrato uzbeco al quale era stata respinta la richiesta di asilo. E oggi tutto il paese è sull'orlo di una crisi di legalità.
La Svezia sull'orlo di una crisi di legalità
Il 7 aprile 2017, a Stoccolma, un camion per il trasporto della birra è piombato sulla folla di cittadini svedesi che stava facendo shopping nella capitale uccidendo 4 persone e ferendone 15. Questo attacco terroristico, ad opera di un immigrato uzbeco al quale era stata respinta la richiesta di asilo, ha cambiato la storia del paese e segnato una linea retta tra il passato e il futuro della Svezia. Da allora il governo ha preso coscienza dei crescenti problemi sociali che si sono moltiplicati nel paese negli ultimi anni e ha deciso di cambiare rapidamente la sua politica sui rifugiati. Un recente rapporto svedese trapelato dalle fonti governative nazionali e reso noto all'estero grazie a Amstrong Economics che ha potuto consultarlo, infatti, rivela che in Svezia il numero di aree fuori controllo è aumentato e ha raggiunto la cifra record di 61 (prima della crisi dei rifugiati erano 55).
L'allarme del direttore delle ricerche sul terrorismo
L'allarme sulla crisi di legalità arriva direttamente dal direttore delle ricerche sul terrorismo presso l'Università della difesa svedese, Magnus Ranstorp, che recentemente ha dichiarato che circa 12.000 persone a cui è stata rifiutata la richiesta di asilo sono sparite nel nulla. Ranstorp ha spiegato che la negazione dello status di rifugiato ha gravi conseguenze di ordine pubblico nel paese, perché la Svezia ha accolto «una marea di gente che è arrivata, ma non ha il diritto di rimanere». Questa popolazione fantasma cercherà di «eludere le autorità e questo alimenterà l'estremismo in molte direzioni diverse». Vale la pena ricordare che proprio il rifiuto del diritto d'asilo ha portato il terrorista uzbeco a compiere la strage dello scorso 7 aprile. Ma Ranstorp si è spinto perfino oltre, denunciando il fatto che 150 siriani «sono tornati in Siria, dalla Svezia, hanno combattuto per lo Stato islamico e poi sono ritornati in Svezia».
Una scommessa difficile da vincere
Le prospettive dei disagi sociali crescenti non migliorano in altri paesi dell'Unione europea, come il Regno Unito o la Francia, già colpiti varie volte da attentati terroristici. Ma la crisi migratoria che affligge il continente europeo non ha una facile soluzione. Sia perché fermare i flussi migratori provenienti dall'Africa è quasi impossibile, sia perché sono gli stessi paesi Ue ad aver bisogno di forza lavoro a basso costo (il crollo della natalità non rende più sostenibile nel lungo periodo i sistemi previdenziali di una popolazione destinata ad invecchiare). Ma l'Istituto IAB per le ricerche sull'occupazione ha chiarito che la maggior parte degli immigrati (circa il 50%) riesce a trovare lavoro solo dopo aver vissuto per almeno 5 anni nel paese che li ospita (tempo necessario mediamente per integrarsi, stringere contatti e imparare la nuova lingua). Un tempo piuttosto lungo durante il quale il paese ospitante deve sostenere il peso economico e sociale della loro integrazione. Proprio durante questo intervallo di tempo possono esser poste le basi di una integrazione pacifica - e fruttuosa sia per l'immigrato che per il paese ospitante - o della crescita esponenziale dell'estremismo sul territorio nazionale con le conseguenze drammatiche che conosciamo. Ma affrontare – e vincere – questa scommessa è decisamente più difficile per un paese già afflitto e provato da una crisi economica come quella che sta affrontando l'Unione europea.
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