Non solo Isis. Perché Mosul potrebbe diventare la nuova Aleppo
La battaglia per liberare Mosul dall'Is si avvicina, ma i risultati potrebbero non essere quelli sperati. Perché la sconfitta di Daesh, pur auspicabile, potrebbe scoperchiare un vaso di Pandora
MOSUL - Nei giorni in cui la Siria è assoluta protagonista delle cronache internazionali, l'altro, pur fondamentale, fronte nella guerra contro lo Stato Islamico, l'Iraq, è rimasto a lungo sotto silenzio. In queste ore i riflettori si sono riaccesi inaspettatamente, dopo che il Pentagono ha reso noto che l’Isis ha sparato verso le truppe americane di stanza nel nord del Paese un colpo di mortaio contenente un agente chimico, probabilmente il cosiddetto gas mostarda.
Un evento inquietante, ma non spaventoso
Un evento certamente inquietante, ma che, secondo gli ufficiali americani, non preluderebbe a possibili attacchi chimici da parte dell'organizzazione terroristica, che non ne avrebbe le capacità tecniche. Anche perché Daesh, nei territori controllati in Siria e in Iraq, sta ormai da mesi manifestando le prime, più serie difficoltà. Tanto che, proprio in Iraq, si starebbe avvicinando il momento della «grande battaglia»: la battaglia per liberare Mosul. Lo ha annunciato il generale della marina Joseph Dunford, presidente dello Stato maggiore congiunto, secondo cui i combattimenti potrebbero avere inizio già ad ottobre, ma spetterà al primo ministro iracheno Haider al-Abadi la decisione finale sulle tempistiche. Il premier, non molto tempo fa, aveva promesso che la città sarebbe stata espugnata entro la fine dell'anno.
La battaglia di Mosul si avvicina
I preparativi sono già in corso: il Governo ha fatto spargere dal cielo dei volantini per avvisare la popolazione dell'incombente «ora zero». Secondo al Jazeera, le forze irachene stanno già avanzando sul terreno, e si troverebbero a una sessantina di km dalla città. Sarebbe solo questione di tempo, insomma, perché Mosul venga finalmente liberata dall’Isis. E si inquadrerebbe proprio in quest’ottica l’uso del gas mostarda contro i soldati americani: un disperato tentativo, se non di recuperare terreno, perlomeno di distrarre l’attenzione dalle proprie perdite. Ma la realtà è che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la riconquista di Mosul da parte delle forze irachene potrebbe non avere gli effetti sperati. Anzi, potrebbe potenzialmente scoperchiare un altro vaso di Pandora.
L'Isis non è l'unico problema dell'Iraq
Intendiamoci: non che la perdita della città da parte di Daesh non sarebbe un pessimo colpo per l’organizzazione. Il punto è un altro, per di più comune ad altri teatri bellici quali, in primis, Siria e Libia: l’Isis non è affatto l’unico problema dell’Iraq. E un suo arretramento – pur chiaramente auspicabile – potrebbe finire per far emergere rapidamente tutti gli altri ostacoli che si frappongono sulla via della pace.
La coalizione del caos
Una preoccupazione che ha manifestato anche il generale curdo Bahram Yassin (uno che l’Isis lo combatte ogni giorno in prima linea) a Daniel Davis, già colonnello dell’esercito americano. Ciò che tormenta Yassin non è solo il fatto che la stessa missione di sradicare l’Isis da Mosul in particolare e dall’Iraq in generale sarà più difficile di quel che si pensa (i jihadisti hanno seminato ordigni esplosivi improvvisati praticamente ovunque), ma anche che le forze che combattono l'Isis sono profondamente divise e portatrici di interessi contrapposti. La coalizione che si oppone Daesh, infatti, è sì tutta irachena, ma è composta da gruppi settari rivali tra loro: i peshmerga curdi, i militanti sciiti, milizie tribali sunnite, milizie cristiane, l’esercito iracheno, che più vario e settario non si può. Coalizione che è lo specchio di un Paese in lotta contro se stesso prima ancora che contro l'Isis, e da troppo tempo sull’orlo della guerra civile.
La paradossale funzione di collante dell'Isis
La mancanza di un accordo politico che preceda, nei fatti, la collaborazione di tutte queste forze in funzione anti-jihadisti potrebbe essere, all’Iraq, fatale. Perché è verosimile che quelle stesse forze finiranno innanzitutto per combattere l'una contro l’altra. Paradossalmente, dunque, oggi l’esistenza dell’Isis ha funzionato da «collante» per tutti questi gruppi: che, in parole povere, hanno dovuto sospendere le ostilità per opporsi al nemico comune. Ma una volta che Daesh verrà sradicato, la repressa animosità tra i «non-del-tutto alleati» potrebbe manifestarsi in modo prorompente, causando un bagno di sangue ancora peggiore di quello provocato dai terroristi.
Sunniti e sciiti, arabi e curdi
Lo stesso ruolo delle milizie sciite in campo è decisamente controverso: perché dopo la liberazione di Fallujah avvenuta quest’estate, alcune di queste sono finite sotto inchiesta per le esecuzioni compiute su larga scala di civili sunniti. Cosa che, ancora prima, è avvenuta a Tikrit. Proprio per questo motivo, le milizie sunnite sono determinate a non lasciar entrare alcun gruppo sciita nelle zone da loro controllate. Per evitare che una guerra civile si sovrapponga, di fatto, a quella contro l’Isis. Ecco perché, prima di sferrare il colpo finale allo Stato Islamico, le forze in campo dovrebbero concertare ruoli, confini, compiti. Ed ecco perché i peshmerga hanno stabilito di combattere soltanto nelle zone curde e cristiane, dove sono benvoluti.
I risultati della destabilizzazione americana
Secondo il generale Davis, Washington non è assolutamente pronta ad affrontare una situazione a tal punto esplosiva. Il che potrebbe anche stupire, visto che scarponi americani sono piantati sul suolo iracheno dal lontano 2003. Non stupisce, perché ormai tutti – anche i candidati alle presidenziali americane – ammettono all’unanimità che la guerra in Iraq è stata una mostruosa opera di destabilizzazione del Paese, le cui conseguenze le abbiamo sotto gli occhi.
Verso una nuova Aleppo
La situazione potrebbe precipitare presto, soprattutto se la strategia non verrà attentamente ricalibrata. Serve una più attenta valutazione dello scenario, e un maggiore sforzo diplomatico di Washington. Serve un piano a lungo termine che tenga conto del fattore di maggiore vulnerabilità dell’operazione Mosul: la mancanza, de facto, di una autorità di coordinamento centrale. Un ruolo che le forze di sicurezza di Baghdad non sono in grado di assolvere, perché non sono abbastanza forti e hanno bisogno dell’aiuto di altri gruppi, e non hanno autorità di comando neppure sulle forze che operano entro i propri confini. Il risultato è che ogni singola entità che lotta contro l’Isis risponde soltanto a se stessa e ai propri comandanti: i curdi al presidente KGR Masood Barzani; le milizie sciite ai loro superiori militari o direttamente a Teheran, le forze sunnite ai propri comandanti. E tutti i consigli e i comitati formati per cercare di mettere d’accordo queste forze, ad oggi (abbastanza prevedibilmente) hanno fallito. Ecco perché Mosul, anche qualora venisse liberata dall’Isis, potrebbe trasformarsi in una nuova Aleppo.