Ecco come l'America fa propaganda (anti-russa) con i videogames
Non solo le ultime vicende geopolitiche ci testimoniano che, per Washington, Mosca è l'attuale grande «nemico». A dimostrarlo, anche i videogames. Come il nuovissimo episodio di Call of Duty, dove il giocatore è chiamato a combattere con la Nato contro (guarda caso) la Russia
WASHINGTON – Ieri è stata una giornata storica per gli amanti dei videogames americani: in uscita, l’attesissima nuova puntata della saga di Call of Duty, Black Ops III. Gioco più atteso del 2015, milioni di utenti aspettavano da tempo il momento di poter vivere nuovissime avventure belliche entro i contorni digitalizzati di un’eterna guerra contro il male e il terrorismo. Sviluppata da Treyarch, la serie è composta da ben 11 capitoli e 4 spin off che vanno avanti dal 2003 e che fanno viaggiare il giocatore attraverso la storia, dalla Seconda guerra mondiale al 2065. Nel 2014, i 10 milioni di dollari incassati dai produttori della serie hanno permesso loro di acquisire la casa produttrice britannica dell’altrettanto celebre Candy Crash al prezzo record di 5,9 miliardi di dollari. Ma ciò che rende l’uscita di questo nuovo episodio particolarmente degno di nota, nel contesto storico-geopolitico che stiamo vivendo, è il nemico prescelto questa volta dai suoi ideatori: la Russia.
Non c’è niente di più serio del gioco
Qualcuno ha sostenuto che non esista nulla di più serio del gioco, e l’uscita di Black Ops III può esserne la dimostrazione. Perché non può essere un caso che, a più di vent’anni dalla fine della Guerra fredda, un videogame made in Usa liberamente tratto da vicende storiche scelga, come nemico da abbattere, proprio Mosca. Del resto, in America i videogame ispirati a reali vicende belliche e geopolitiche vanno per la maggiore, e si rivolgono a un target di trentenni, piuttosto che ai ragazzini. Non è neppure un caso che Hillary Clinton, che da sempre nutre forti dubbi sull’opportunità di commercializzare giochi violenti, stia rivedendo la sua posizione: perché il numero degli utenti di tali giochi è in perenne crescita, e la produzione di questi videogame sta diventando sempre più parte integrante della «cultura americana».
Storia, fantasia e propaganda al di là dello schermo
In effetti, Call of Duty è in ottima compagnia. Tra i videogiochi bellici di produzione americana di maggior successo si possono ricordare ad esempio Battlefield e Medal of Honor, ma anche Desert Storm, che ha messo in scena la guerra americana contro i «cattivi iracheni» di Saddam. In generale, le Guerre del Golfo sono state lo scenario prescelto per numerosi videogames, che hanno di volta in volta operato una semplificazione telematica di onflitti che, al tempo, consumarono le coscienze americane. Perché in effetti, il paradigma che accomuna l’ampio spettro di tale produzione è proprio questo: il tentativo di educare e mobilitare l’opinione pubblica americana rispetto alla politica estera degli Usa – che si tratti di guerra al terrorismo o delle relazioni con la Russia –, veicolando l’immagine dell’eccezionalità degli Stati Uniti. Quei giochi non sono soltanto un aspetto sintomatico dell’egocentrismo americano, nonché della forte propensione alle armi insita in certa parte di quella cultura; quei giochi sono innanzitutto strumento di propaganda, volti a presentare l’America come l’unico baluardo della democrazia e dei valori occidentali, perennemente «vittima» del nemico di turno. Un nemico che può essere l’Iraq di Saddam Hussein, la Corea del Nord, o, come in questo caso, la Russia.
Mosca è il nuovo nemico
La narrazione è sempre la medesima: cambia il teatro di guerra, ma non i binari entro cui si svolge la vicenda. L’America è costantemente dipinta come l’unica parte positiva, l’«altro» è sempre nemico. Non solo: qualora vi siano terze parti, queste sono costrette a ricorrere all’aiuto americano per salvarsi, com’è per i francesi in Modern Warfare 3. Il messaggio implicito onnipresente è quello dell’inevitabilità dell’intervento armato, unico strumento per salvare il «Bene» e sconfiggere il «Male». E’ proprio su questo schema che si innesta la trama dell’ultimo «capolavoro» della saga di Call of Duty. La vicenda è ambientata nel 2025, anno in cui le nazioni di tutto il mondo si uniscono per combattere il terrorismo. Così, la comunità internazionale decide di difendere lo spazio aereo con il Dead, uno scudo antimissile planetario. Ma il surriscaldamento globale e la sovrappopolazione mandano all’aria il progetto, l’Unione europea si disintegra, la Russia compra il debito estero della Polonia e si riestende fino alla Cortina di ferro con il Patto di difesa comune. Così, gli occidentali costituiscono un’alleanza militare contro la Russia e riscoppia la Guerra fredda.
Tra invenzione e realtà
Partendo dalla consapevolezza di come i videogames siano sottilmente sempre più usati come strumento di propaganda, non è difficile scorgere il filo rosso che unisce il nuovo capitolo della saga di Call of Duty con il momento storico in cui è stato prodotto. La Russia non avrà infatti comprato il debito polacco, ma la crisi ucraina e quella siriana l’hanno prepotentemente ricatapultata al centro degli equilibri geopolitici mondiali. In quanto allo scudo missilistico, esso fu introdotto da Reagan nell’83, ma è stato riproposto nel 2002 ufficialmente con l’idea di proteggere Europa e Usa dai terroristi di Medio Oriente e Africa. Dopo una temporanea sospensione, esso riprenderà, pare, nel 2018. Per non parlare, poi, della silenziosa escalation militare che interessa Nato da una parte e Russia dall’altra, e che pare a tratti riproporre scenari vecchi di vent’anni. E quale strumento migliore di un attesissimo videogame per rappresentare - pur con qualche concessione alla fantasia - quanto sta accadendo nello scenario geopolitico globale?