19 aprile 2024
Aggiornato 22:00
I creditori alle prese con il «no»

Il debito parla greco, ma anche italiano

Quella di Atene sarà una svolta per il destino del debito pubblico di molti paesi, prima di tutti l’Italia. I detentori della finanza internazionale sono chiamati decidere se deve essere eterno o se, con il tempo, l’ammontare degli interessi corrisposti possono andare a deduzione di una parte di esso. E’ quel 30 per cento di sconto Tsipras

ROMA - Ai greci va dato atto di avere avuto un gran coraggio. Da oggi questa nazione e questo popolo diventeranno il laboratorio della più grande rivoluzione economica dalla fine della seconda guerra mondiale. Da quando, cioè, nella quasi totalità del mondo occidentale industrializzato si affermò un modello di società fondato sul capitale.

LIBERISMO E STATALISMO - Bisogna precisare che nel vasto emisfero occidentale l’interpretazione di una società fondata sul capitale fu, però, tutt’altro che univoca, e la diversità più evidente si determinò fra una Europa più propensa ad annacquare il capitalismo con ampie dosi di statalismo (l’Italia è ancora oggi campionessa di statalismo) e gli Stati Uniti portabandiera di un liberismo esteso a tutti i settori presenti nel sistema, fatta eccezione per quelli strategico-militari. Dove, invece, tutto l’universo occidentale si concorde fu nell’applicazione diffusa di quella dottrina che porta il nome di John Maynard Keynes.

UN DEBITO CHIAMATO KEYNES - Keynes, la cui teoria contribuì a fare uscire gli Stati Uniti dalle secche della «grande depressione» del’29, fu infatti il fautore di una dottrina economica che prevedeva, in caso di recessione, la possibilità di consentire un intervento massiccio dello Stato al fine di fare ripartire la domanda, e di conseguenza l’occupazione. Con quali soldi? Con i soldi che ogni stato avrebbe potuto procurarsi accollandosi debiti. Quello che oggi a noi appare scontato fu, invece, una vera e propria rivoluzione dell’economia classica che fino al 1929 aveva governato i paesi industrializzati dell’occidente. E’ sul quel debito keynesiano, sulla sua entità e sugli effetti che produce, che ieri si sono pronunciati i greci, ed è per questo che tutto quello che da oggi provocherà quel «no» riguarda non solo la Grecia, ma tutto l’Occidente: perché tutto l’Occidente, ormai da quasi un secolo, gioisce e pena intorno a quella divinità chiamata «debito».

CONSENSI POLITICI A PAGAMENTO - Come la soluzione dovuta ad un genio dell’economia possa essersi trasformata nel tempo in una divinità intoccabile, o in un mostro, a seconda degli interessi contrastanti, è presto detto. Soprattutto negli ultimi cinquanta anni l’indebitamento statale un po’ dovunque si è andato sempre più trasformando da strumento per lo sviluppo a macchina produttrice di consenso politico. A spese di chi? Naturalmente dei cittadini che si vedono gabbati due volte: la prima, perché nelle società industrializzate complesse non basta creare occupazione fittizia («basta far fare le buche ai disoccupati per poi fargliele riempire», si diceva ai tempi del new deal keynesiano) per rilanciare lo sviluppo; la seconda perché sono condannati a pagare a vita gli interessi sul debito, che appunto è diventato una divinità che non si può nemmeno mettere in discussione poiché alimenta quella che con il tempo è diventata la rendita parassitaria di tutto il sistema finanziario internazionale.

LO SCONTO DI TSIPRAS - «Avete fatto una scelta coraggiosa. Il mandato che mi avete dato non è quello per una rottura con l'Europa, ma un mandato che rafforza la nostra posizione negoziale alla ricerca di una soluzione sostenibile», sono state le prime parole pronunciate da Alexis Tsipras dopo la vittoria schiacciante del «no». E’ su queste poche parole che oggi i sancta santorum della finanza europea devono riflettere. Che cosa chiede Tsipras e la Grecia con lui? Che i detentori del debito greco consentano a quel paese di poter accumulare una parte rilevanti delle risorse che derivano dai sacrifici fatti dalla popolazione e dall’austerity in interventi per lo sviluppo. I greci si sono ribellati all’ austerity perché non ha portato alcun giovamento al sistema, è stato solo un modo per soddisfare l’incontentabile avidità dei creditori. «Siamo alla ricerca di una soluzione sostenibile», ha ripetuto Tsipras, che a testimonianza della sua buona volontà ha anche fatto a meno di Varoufakis.

IL CASO ITALIANO - Ed è una soluzione sul debito che, prima o poi, anche l’Italia dovrà ricercare. Fino a quando, infatti, l’Italia potrà sostenere il peso di quegli ottanta miliardi di euro che ogni anno riversiamo nelle casse dei nostri creditori? «L’ Italia può contare su un grande avanzo primario», ha detto il nostro ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. E’ vero, l’Italia da  molti anni produce molta più ricchezza di quella che consuma. Ma dove va a finire tutta questa virtù? Negli interessi che paghiamo ai nostri creditori. E intanto il debito resta lì. Immobile, eterno. L’unica cosa che ci è stato concesso in questi ultimi anni è di aumentarlo, ora siamo arrivati a quasi duemila e duecento miliardi di euro. Non ritiene il governo che sarebbe ora di avviare un dibattito sul tema del nostro debito? E non converrebbe cominciare a farlo oggi, magari dando una mano ai greci, piuttosto che domani davanti a una qualche situazione emergenziale?

RENZI ACIDO CON PARIGI E BERLINO- «Se restiamo fermi, prigionieri di regolamenti e burocrazie, l'Europa è finita», ha scritto un po’ acidamente Matteo Renzi su Facebook, dopo l’esito del referendum greco. Renzi ha ragione di essere risentito dopo che la Merkel e Holland hanno fatto finta che non esistesse quando si è trattato di capire quali misure adottare con la Grecia dei «no». Il nostro premier non può dirsi invece sorpreso per il trattamento che gli è stato riservato: chi si è scelto il ruolo gregario di guardiano del gregge non deve meravigliarsi se i «padroni» del gregge finiscono per non filarselo quando arriva il momento di prendere le decisioni che contano.