18 agosto 2025
Aggiornato 11:30
La Lega mette in guardia dalla «colonizzazione» cinese

Borghi: «E' una lotta impari. Pechino ha le mani libere, noi legate, dall'Europa»

Dopo l'entrata della Cina in Pirelli, si accende il dibattito tra chi considera il boom di investimenti cinesi in Italia un buon segnale, e chi parla di debolezza strutturale della nostra industria. Per Claudio Borghi, l'«exploit» cinese per noi non ha nulla di positivo: perché l'investimento straniero è assimilabile al debito, e l'Italia rischia di cedere tecnologie, brevetti e pezzi di storia.

ROMA – La notizia che la Pirelli sarà presto acquisita da un’azienda cinese che ne diverrà socio di maggioranza divide politica e opinione pubblica, tra chi parla di segnali di ripresa, e chi di debolezza intrinseca della struttura industriale italiana. In ogni caso, quello della Pirelli non lo si può certo definire un episodio in controtendenza: secondo uno studio di Kpmg, nel 2014 si contano almeno 16 operazioni portate a termine, nel nostro Paese, da investitori cinesi, per un valore complessivo che sfiora i 6 miliardi di euro. Ci hanno ripetuto che la mancanza di investimenti esteri nel nostro Paese era da interpretarsi come segnale negativo per l’Italia: questi dati, oltre all’acquisizione della Pirelli, sono dunque da accogliere positivamente? Secondo Claudio Borghi, economista della Lega e candidato governatore in Toscana, «assolutamente no. Questi non sono segnali positivi. Perché l’investimento diretto estero è assimilabile al debito».

BORGHI: L’INVESTIMENTO DIRETTO ESTERO PER NOI E' COME UN DEBITO - Borghi sottolinea che l’investitore estero «non ci sta facendo beneficenza. Conta di guadagnarci. Se quindi ha fatto bene i suoi conti, se lui ci guadagna, noi ci perdiamo». In ogni caso, l’economista ricorda che «stiamo parlando di aziende che hanno tecnologie, brevetti, storie importanti; e se anche gli accordi iniziali sembrano tutti concentrati alla tutela del lavoro in Italia, in realtà queste tecnologie, questo metodo, questo brevetto, una volta acquisito potrebbe essere replicato all’estero. Poi, il fatto che il capitale sia cinese, piuttosto che americano, non è che faccia molta differenza. Anche se», si corregge Borghi, «nel caso della Cina fa un po’ più rabbia perché stiamo parlando di una nazione dove non ci sono regolamentazioni, e dove lo Stato può intervenire a piacimento  anche per sostenere le imprese. Una nazione che viene qui a comprare in Italia dove invece la regolamentazione è fortissima, dove non si può fare nulla, altrimenti sono aiuti di Stato. Quindi, un Paese in difficoltà come il nostro risulta davvero vulnerabile». Insomma: «noi stiamo correndo con le gambe legate, ma il premio va a chi corre con le gambe libere», conclude perentoriamente  Borghi. E chi corre con le gambe libere, in questo momento, è la Cina.

2014, ITALIA PRIMA META DI INVESTIMENTI CINESI -  D’altronde, il premier Renzi, lo scorso ottobre, ha siglato una serie di accordi con la Cina per 8 miliardi di euro: in particolare, quello tra Enel e Bank of China avrebbe fatto ottenere al gruppo italiano potenziali linee di credito per il prossimo quinquennio.  Eppure, il rapporto con  Pechino sarebbe ancora squilibrato, visto che, secondo il report Cesif  La Cina nel 2014, le imprese a capitale italiano partecipate in Cina sono 1250, con 18.000 miliardi di fatturato, a fronte di 187 partecipate cinesi in Italia, che producono un fatturato di 2.852 miliardi di euro.  In ogni caso, secondo i dati di Kpmg, la tendenza è chiara: l’Italia nel 2014 è stata la principale meta dello «shopping» cinese in Europa. E, più in generale, dopo Gran Bretagna e Francia, l'Italia è il terzo Paese europeo per ammontare di investimenti cinesi davanti a Germania, Grecia, Portogallo e Spagna.  «La Banca del popolo cinese a luglio ha acquistato quote di Fiat-Chrysler (177 milioni di euro per il 2 per cento delle quote), Telecom Italia (310 milioni per il 2,081 per cento) e Assicurazioni Generali (475 milioni per il 2,014 per cento). A marzo era toccato a Eni (1,4 miliardi per il 2,1 per cento della società petrolifera) ed Enel (734 milioni per il 2,07 per cento)», riporta Il Giornale. Ma non solo: «Auto, petrolio, reti per il trasporto di energia, telecomunicazioni, grande finanza, tecnologie industriali, e c'è anche spazio per il lusso: il gruppo Shenzhen Marisfrolg Fashion, azienda leader sul mercato asiatico del pret-à-porter di fascia alta, ha rilevato il marchio Krizia a febbraio per 35 milioni, mentre lo Shandong Heavy Industry Group è entrato in Ferretti Yatch con il 75 per cento e Peter Woo in Salvatore Ferragamo con l'8».

APPETIBILITÀ SUL MERCATO O DEBOLEZZA STRUTTURALE? - Con l’entrata in Pirelli, poi, la «colonizzazione» è divenuta evidente. Ed è stata salutata da pareri contrapposti anche all’interno del medesimo gruppo politico: c’è chi l’ha ritenuta un segnale positivo di ripresa di appetibilità sui mercati internazionali, come Enrico Morando (Pd), e chi, nello stesso Pd, ha parlato di «drammatico declino della nostra struttura industriale produttiva», che si starebbe svendendo pezzo per pezzo nel disperato tentativo di attirare investimenti stranieri e recuperare capitale. Claudio Borghi è di quest’ultimo avviso: chi acquisice «pezzetti d’Italia», lo fa sperando di guadagnarci. E, se ha fatto i conti giusti, i bocconi amari finirà per inghiottirli solo il Belpaese.