19 aprile 2024
Aggiornato 14:30
Caffè

Starbucks a Milano: la globalizzazione si beve un'altra tradizione italiana

Abbiamo insegnato a fare il caffè a tutto il mondo. Ora ci arrendiamo al beverone sbiadito (ma alla moda) propinato dalla multinazionale made in Usa

Una addetta di Starbucks offre caffè ai clienti in coda per accedere alla caffetteria americana aperta in piazza Cordusio a Milano
Una addetta di Starbucks offre caffè ai clienti in coda per accedere alla caffetteria americana aperta in piazza Cordusio a Milano Foto: Matteo Bazzi ANSA

MILANO – È la più grande multinazionale delle caffetterie, con 86 miliardi di capitale e 21 di fatturato, e oltre 200 mila dipendenti distribuiti su 24 mila punti vendita in 72 Paesi. Tra i quali, fino ad oggi, non figurava il nostro. Fino ad oggi, però. Già, perché alle nove in punto di questa mattina, 7 settembre 2018, nel cuore di Milano, ha ufficialmente aperto i battenti il primo locale firmato Starbucks in Italia. Un caffè torrefazione, pomposamente battezzato «Reserve Roastery», e collocato dentro lo storico palazzo delle Poste a piazza Cordusio. Secondo quanto riporta il comunicato della catena statunitense, offrirà una selezione di miscele di arabica provenienti da 30 diverse nazioni, a due passi dall'epicentro di cultura e intrattenimento della città.

Tre secoli di storia
Affascinante, non c'è che dire, e senza dubbio alla moda. Peccato che ci fosse un motivo ben preciso se Starbucks ci ha messo oltre vent'anni di esitazioni prima di sbarcare nello Stivale. E il motivo è che il caffè, seppur importato come materia prima dai climi equatoriali d'oltre Atlantico, proprio da noi ha saputo trovare quella realtà che è stata capace di valorizzarlo al meglio. La prima bottega del caffè italiana aprì nel lontano 1683, in piazza San Marco a Venezia, e da allora non abbiamo più smesso di sperimentare sempre nuovi metodi di preparazione per esaltare l'aroma dei mitici chicchi: dalla macchina da bar alla caffettiera moka, entrambe ideate e brevettate in Italia. Insomma, non è sterile campanilismo, ma legittimo orgoglio, affermare che sono stati gli italiani ad insegnare al mondo a fare il caffè. Tanto che questo tipo di caffè è conosciuto in tutto il mondo proprio con un nome italiano: «espresso».

Passione vs marketing
Difficile sostenere che rinunciare al primato della nostra tazzina (o «tazzulella», rispettando il vecchio sapere napoletano su questa materia), in favore di un menù dai nomi modernamente americani, rappresenti un'apertura alla contaminazione con le culture che vengono dall'estero. Piuttosto, suona come la demolizione di un altro di quei piccoli argini, che ancora resistevano alla globalizzazione selvaggia, all'omologazione dei sapori e dei gusti, alla trasformazione dei nostri nobili retaggi artigianali in prodotti (anzi, «commodities») industriali da esportare, sempre uguali a se stessi, in ogni angolo del globo. Magari nascosti sotto un marchio di quelli che fanno tendenza, che ci bombardano attraverso i social network e dunque piacciono tanto ai giovani, sottoposti ad un costante lavaggio del cervello. Dateci pure dei retrogradi anacronistici, diteci pure che non siamo al passo con i tempi. Ma noi, ad un beverone sbiadito in un bicchierone di carta, servito sul bancone di un loft con collegamento wi-fi, preferiremo sempre e comunque una tazza fumante nella bottega sotto casa. Perché anche scegliendo come e dove bere il nostro primo caffè della mattina si può praticare un vero atto politico.