18 aprile 2024
Aggiornato 23:00
Il premier alla resa dei conti con la minoranza

Renzi , basta con il «compromesso storico» alla D’Alema

Di Matteo Renzi si può apprezzare la scelta del metodo: pretende di fare l’uomo solo al comando e questo comporta certamente dei rischi. Ma anche il vantaggio che se le cose non andranno nel verso giusto gli Italiani sapranno senza ombra di dubbio con chi prendersela.

ROMA - Quello che sta succedendo all’interno dei partiti italiani probabilmente ha pochi riscontri, e non solo nella storia  della Repubblica Italiana. E’ come se il virus che si sta mangiando dal di dentro gli ulivi centenari della Puglia si fosse diffuso all’interno delle segreterie di partiti e movimenti.  Le cordate, le dissidenze, i distinguo, fino ai cambi di casacca e ai tradimenti hanno talmente infettato la vita della politica italiana che è anche difficile seguirne le vicende.

IL REBUS FORZA ITALIA - Prendiamo il caso Poli Bortone. L’intreccio a Bari, salvo sommovimenti dell’ ultimo momento, si presenta con queste caratteristiche. L’ex ministro, esponente di spicco di Fratelli d’Italia, è stata candidata alla guida della Puglia, da Silvio Berlusconi. L’ex Cavaliere ha scelto la Poli Bortone per contrastare il candidato di Forza Italia di appena una settimana fa. L'ormai antagonista di Fi si chiama Francesco Schitulli ed è diventato ex perchè ha voltato le spalle a Berlusconi, leader del partito a cui appartiene, per  fare un accordo con Raffaele Fitto, dissidente di Fi, il quale a sua volta non ha nessuna intenzione di mollare il partito ed evidentemente Berlusconi non ha gli strumenti per metterlo alla porta. In questa partita di sponde e contro sponde non poteva restare estranea Giorgia Meloni, leader del partito della Poli Bortone che ha detto chiaro e tondo di non volersi prestare a fare lo scendiletto dello scontro fra Berlusconi e Fitto e di conseguenza ha intimato alla candidata "a sua insaputa"  di lasciar perdere, se non vuole essere considerata una «traditrice di Fratelli d’Italia».

LO SCONTRO NELLA DITTA - Al rebus Forza Italia si contrappongono altrettante partite di Risiko in tutte le altre segreterie di partito, e il gioco dei quattro cantoni, come sappiamo, non risparmia Grillo e Salvini. Eppure in questo ping pong fra maggioranze e opposizioni interne, c’ è una strada di Roma, si chiama via del Nazareno, dove l’attacco alla stanza dei bottoni solo apparentemente sembra eguale a quello che si sta consumando praticamente in tutti i partiti. Quello che sta avvenendo nel Partito Democratico non è infatti solo uno scontro di potere o di ricambio generazionale. Se vogliamo infatti dare alle cose il loro vero nome, quello al quale stiamo assistendo nel Pd è un vero e proprio scontro ideologico.

L’IDEOLOGIA DELLA GESTIONE - Che cosa divide Matteo Renzi, da Bersani, D’alema, Bindi, financo dal giovane Civati, se non una concezione ideologica della gestione della politica. Di quale ideologia della sinistra italiana stiamo parlando? Di quella che è nata con il compromesso storico di Enrico Berlinguer, che alla scomparsa di quest’ultimo, da disegno propedeutico alla nascita di una socialdemocrazia, si è invece trasformato in un progetto da partito bipolare. Il dualismo è stato infatti il marchio di fabbrica della «ditta» degli ultimi decenni. Da un lato il partito, se non altro per propaganda, ha continuamente vellicato i temi sulla famiglia, o non-famiglia, cari alla sinistra radicale, in barba ai principi non solo di Berlinguer, ma addirittura di Palmiro Togliatti; dall’altro ha dato il via libera ad una concezione della politica come piattaforma per scorrazzare in lungo e in largo sulle rotte di ogni affare, lecito o, all’occasione, anche illecito, come le ultime inchieste giudiziarie stanno dimostrando.

FINE DEL COMPROMESSO STORICO - In che cosa Renzi diverge da questa fisionomia del Partito Democratico in cui si riconoscono i Bersani, i D’Alema, le Bindi? Nella gestione della «ditta» così com’è. La vecchia guardia aveva trovato il proprio equilibrio in una sorta di «compromesso storico» interno al partito ( una pratica mutuata dalla veccia Dc) in cui ognuno si gestiva il proprio feudo, senza recare disturbo o subire disturbo dalle baronie limitrofe. Forse Renzi  intende cambiare il cuore pulsante della «ditta»? Molto probabilmente no, altrimenti avrebbe cominciato a prendere in considerazione il caso del suo ministro Poletti, dopo le fotografie che lo ritraggono in frequentazioni off limits, o dopo le vicende delle Coop di cui per decenni è stato un protagonista.

UN SOLO MANAGER AL COMANDO - Semplicemente Renzi si è reso conto che «il compromesso» fra i baronati non regge più perché è il mercato ad avere messo fuori gioco i Bersani e i D’Alema. Ritiene che oggi ci vogliono decisioni rapide, meno incrostate di propaganda ( o di propaganda superata), svincolate dalle sorpassate «cinghie di trasmissione» tipo Cgil. E’ questo pragmatismo nel gestire la «ditta» che i Bersani e D’Alema non riescono a digerire. Cioè non gli va giù di restare con un pugno di mosche in mano e di non aver ricevuto alcuna compensazione per quello che considerano un esproprio. Nemmeno un posto a Bruxelles o alle Nazioni Unite. Questa è la cornice in cui va inquadrato lo scontro nel Partito Democratico. Altra cosa è invece passare ad analizzare in che misura questa messa in mora del «compromesso storico» targato D’Alema da parte di Matteo Renzi  possa fare il bene dell’Italia. Per  avere dare una risposta a questo interrogativo ci vorrà un po’ di tempo. Intanto di Matteo Renzi si può apprezzare,però, la scelta del metodo: pretende di fare l’uomo solo al comando e questo comporta certamente dei rischi. Ma anche il vantaggio che se le cose non andranno nel verso giusto gli Italiani sapranno senza ombra di dubbio con chi prendersela.