23 agosto 2025
Aggiornato 10:00
Gli imprenditori con gli occhi a mandorla minacciano il Made in Italy?

Dopo la Pirelli, Pechino compra la Giochi Preziosi

Dopo la Pirelli, Pechino mette le mani su un altro storico marchio italiano. E' la volta della Giochi Preziosi, fondata nel 1978 da quel famoso Enrico proprietario della squadra di calcio del Genoa. L'azienda ha un debito di 270 milioni di euro, e l'imprenditore Michael Lee è pronto a sborsarne almeno trenta per accaparrarsi una quota societaria pari al 35%.

ROMA - Dopo la Pirelli, Pechino mette le mani su un altro storico marchio italiano. E' la volta della Giochi Preziosi, fondata nel 1978 da quel famoso Enrico proprietario della squadra di calcio del Genoa. L'azienda ha un debito di 270 milioni di euro, e l'imprenditore Michael Lee è pronto a sborsarne almeno trenta per accaparrarsi una quota societaria pari al 35%.

PECHINO COMPRA ANCHE LA GIOCHI PREZIOSI - Un altro pezzo d'Italia che se ne va. La Giochi Preziosi, il colosso di giocattoli numero due in Europa alle spalle della Lego, era più di un gioiello di famiglia. E' stata fondata nel 1978 da Enrico Preziosi, il proprietario della squadra del Genoa, e tutti i giovani della nostra generazione se la ricordano benissimo, perché protagonista assoluta della nostra infanzia. Dopo l'acquisizione della Pirelli da parte della ChemChina, ora anche questo storico marchio italiano finisce in mani straniere. Michael Lee, imprenditore cinese di Taiwan, è pronto a investire molti soldi sulla Giochi Preziosi, che al momento presenta un debito di 270 milioni di euro. Il magnate in questione è noto soprattutto per i suoi affari nel campo delle pietre preziose (coincidenza bizzarra, dato che anche i giocattoli in questione sono appunto «preziosi») ed è proprietario di diverse miniere di rubini e smeraldi sia in Tanzania che in Sri Lanka. Lee ha messo sul tavolo circa 60 milioni di euro, per rilevare il 49% dell'azienda italiana, diventandone così il secondo socio. La quota di maggioranza resterebbe comunque nelle mani dell'imprenditore genovese, che continuerebbe a detenerne il 51% attraverso la holding Fingiochi. Si tratta, tuttavia, di un cambio di passo epocale e l'ennesima dimostrazione – qualora ce ne fosse bisogno – del fatto che l'industria italiana sia in difficoltà.

QUANTO DIPENDIAMO DAI CINESI? - L'Europa tutta, in realtà, sembra aver bisogno dei capitali cinesi. E gli imprenditori con gli occhi a mandorla, che investono in Occidente, sono aumentati di molto rispetto al passato. Facciamo alcuni esempi: un medico di Shangai ha comprato la francese Club Med, alcuni investitori sostenuti da Pechino hanno acquistato computer e server dell'Ibm, e taluni altri catene di cinema negli Stati Uniti nonché l'azienda automobilistica svedese Volvo. Nel 2001, in Italia, c'erano solo 21 aziende con azionisti cinesi: oggi sono ben 327. Tra queste, val la pena citare alcuni marchi d'abbigliamento piuttosto conosciuti: Miss Sixty, Krizia, Caruso. Ma anche industrie metalmeccaniche e produttori di generi alimentari. L'Italia si è svegliata di soprassalto, lo scorso 23 marzo, quando ha appreso che un'azienda cinese sconosciuta si era appena impadronita dello storico marchio della Pirelli. C'è da allarmarsi? Il fatto è che all'Occidente servono i capitali, per aiutare un'economia in crisi, e Pechino da parte sua ha bisogno di investirli. Gli imprenditori con gli occhi a mandorla sono disposti ad aprire nuovi mercati e a rilanciare quelli che si trovano in difficoltà, aiutando spesso aziende coi conti in rosso come nell'ultimo caso della Giochi Preziosi. La domanda che allarma un po' tutti, però, è la seguente: la Cina può essere una risorsa per il Made in Italy o siamo destinati e veder saccheggiare il nostro paese dagli imprenditori di Pechino? I dati parlano chiaro: oggi è la Cina - non più gli Stati Uniti – il primo partner economico della penisola, e che lo yuan sia una necessità – più che un'opportunità – è chiaro alla maggior parte dei gruppi italiani sul mercato. La debolezza strutturale della nostra industria e della nostra economia ci rendono dipendenti dai capitali stranieri, che tuttavia possono essere sfruttati per scommettere sull'innovazione, la concorrenza e il rilancio del Made in Italy: a patto, però, di non svendere tecnologie, brevetti e celebri marchi della nostra storia nazionale.