17 agosto 2025
Aggiornato 13:30
Governo a rischio al Senato sulla Buona Scuola

Se non ai presidi, il potere a chi?

Forse sarebbe stato più coerente separare il provvedimento per l’assunzione dei precari, dai contenuti qualitativi della riforma. Questa anomala commistione ha contribuito finora a tenere lontana dal dibattito una analisi oggettiva sulla adeguatezza della scuola italiana ai bisogni di una società più giusta e più progredita, ma anche meglio gestita.

ROMA- Se qualcuno ha ancora interesse a capire come procede il cammino del nostro Paese deve perdere un po’ di tempo ad osservare le sorti della riforma della scuola. Sia quelle che si sono già palesate, dalla presentazione del ddl fino all’approvazione a Montecitorio. Sia quelle prossime a verificarsi, con il passaggio del provvedimento al Senato.

Quantità e qualità
Chiariamo subito che l’osservazione, se veramente si vuole capire qualcosa, non deve limitarsi all’iter parlamentare, per quanto esemplare possa essere, ma deve allargare l’orizzonte visivo al di fuori delle aule parlamentari, verso le istituzioni collaterali. Con particolare attenzione ai sindacati, fino a spingersi all’interno delle mura famigliari. Inoltre c’è da aggiungere un’altra raccomandazione preliminare: la riforma della scuola non deve assolutamente essere giudicata come un unico pacchetto. Infatti che cosa c’etra l’assunzione di oltre centomila precari con una legge, buona o cattiva, che si autodefinisce «riforma»?  Sappiamo tutti che non c’è nulla di riformato in questa infornata di nuovi assunti. Anzi, al contrario, la sistemazione dei precari, per quanto possa essere riparatoria nei loro confronti e indispensabile al funzionamento della scuola, doverosamente va annoverata nella filosofia della conservazione (altro che riforma) poiché è in perfetta continuità con le cieche sanatorie del passato.

Il potere ai presidi
Solo dopo aver provveduto, nella riflessione, allo stralcio di questo contenuto di natura esclusivamente quantitativa, si può avere la lucidità necessaria per affrontare il vero cuore del problema: il potere della scuola affidato ai presidi. Prima osservazione. Ma adesso, questo potere che dovrebbe finire nelle mani dei presidi chi lo detiene? La domanda è facile, ma la risposta è più complessa. Risalendo a riforme precedenti si può ricordare che praticamente nessuno ebbe qualcosa da obiettare quando si disse che i presidi dovevano assumere un ruolo da manager della scuola. Il manager scolastico, così come uscì da quei provvedimenti, avrebbe dovuto limitarsi a gestire i beni materiali della scuola, cioè tetti, banchi ecc.  Ma il potere, cioè quella funzione attraverso la quale si giudica e si gestisce il lavoro di altre figure, in questo caso gli insegnanti, allora restò dove era, cioè da nessuna parte. Quindi niente barricate. Salvo quelle tollerate e quasi istituzionalizzate che i giovani studenti italiani montano, per un motivo o per un altro, in genere con l’arrivo delle belle giornate. Al massimo ai presidi si dette la facoltà di mettere in atto qualche vendetta personale attraverso la compilazione degli orari, la concessione di permessi, l’organizzazione delle gite. Tutta robetta da non impensierire né gli insegnanti, né le sette sigle sindacali (ma poi ci sono quelle che nascono spontaneamente) che li rappresentano.

Una riforma senza conflitto di interessi
Ora tutto si può dire della riforma della scuola che aveva in mente Renzi, meno che  fosse viziata da un conflitto di interessi, a mano di voler considerare un «conflitto» la moglie che fa l’insegnante ed è precaria. Inoltre a inimicarsi quasi un milione di insegnanti il Presidente del Consiglio in termini elettorali ha tutto da perdere e nulla da guadagnare. Si poteva quindi partire da questo assunto per poter parlare di un tema così delicato in modo oggettivo, senza cioè il vizio dell’interesse. Questa condizione ottimale avrebbe inoltre suggerito di porsi principalmente la domanda: «per chi deve essere utile questa legge?». Sarebbe stato un modo per andare ad incocciare fatalmente con quel convitato di pietra che invece raramente, nei dibattiti sulla scuola in Tv o suoi giornali, abbiamo il piacere di sentire evocato e cioè:  «l’alunno», «lo studente».

Quale scuola per gli studenti
I primi a non porsi domande sugli interessi dell’»alunno», dello «studente», purtroppo e inspiegabilmente, sembra che siano le famiglie italiane. Nei discorsi, non solo quelli pubblici, ma anche nei salotti, è tutto un infervorarsi su «scuola pubblica» , «attacco dei privati», «autonomia», «un uomo solo al comando» e mai nessuno che si chieda che cittadini, lavoratori, intellettuali, dirigenti, stia sfornando la scuola così come la conosciamo.

Il '68 che viene da destra
Fra le tante incongruenze che caratterizzano lo scontro su questa riforma della scuola ce n’è anche un’altra che salta agli occhi. I dissidenti del partito di Renzi accusano il loro segretario di volere portare a destra la scuola. Il provvedimento secondo Stefano Fassina è così a destra da indurlo a minacciare: «Se non cambia lascio». Fassina, come il suo solito non riesce a farla nel vaso. Ma anche al giudizio di occhi meno strabici la «buona scuola» renziana non può certo passare come un modello di scuola post sessantottina. Di conseguenza ci si potrebbe aspettare, su questo punto, qualche strizzatina d’occhi all’indirizzo del Presidente del Consiglio da parte della destra. E invece anche da quel versante botte da orbi. Anche la destra ha sentito il bisogno di scendere in campo in difesa di una organizzazione scolastica che, così come è, a molti sembra più ispirata alle regole in vigore nei centri sociali che a quell’aspirazione all’ordine e al rispetto delle gerarchie di cui dovrebbero essere paladini gli antagonisti della sinistra.

La sindrome del capo
Si può capire che gli insegnanti non vogliano un capo che stia a sindacare quello che fanno. Quello che è difficile capire è perché alle famiglie italiane dovrebbe fare piacere che chi indirizza i loro figli verso il futuro lo debba fare senza alcuna verifica e valutazione del proprio operato. Il problema, in questo caso, non ha nulla a che vedere con la destra o la sinistra, ma molto più semplicemente con il principio di controllo. Un principio che, se fosse accettato, ne introdurrebbe automaticamente un altro: il controllo dei controllori. Sembra semplice. Invece si complica assai se, disuniti su tutto, gli italiani si ritrovano concordi su un unico punto: l’insofferenza ad essere giudicati.