29 aprile 2024
Aggiornato 06:30
La beatificazione sdogana anche i movimenti che il Vaticano a suo tempo osteggiò?

S.Egidio: «Romero non era teologo della liberazione»

Óscar Arnulfo Romero beato? Fino a qualche anno (e Papa) fa, sarebbe parsa solo una provocazione di cattivo gusto. E invece, con Francesco, l'arcivescovo di San Salvador ucciso nel 1980 dagli squadroni della morte sarà beato. Nonostante l'opposizione degli ambienti ecclesiastici conservatori e di chi sostiene che il «monseñor» fosse legato a doppio filo alla teologia della liberazione

ROMA – Ci ha impiegato 22 anni, ma ora ce l’ha fatta, o almeno così sembra. La Chiesa sarebbe pronta a beatificare Óscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador ucciso il 24 marzo 1980 dagli squadroni della morte mentre celebrava la messa nella cappella dell’ospedale della Divina provvidenza. Più che la Chiesa, sarebbe stato Papa Francesco ad accelerare i tempi di beatificazione, dilatatisi a causa dell’opposizione di ambienti conservatori e di chi vedeva in Romero una figura politica, legata alla teologia della liberazione.

PER SANT'EGIDIO E AZIONE CATTOLICA, NON FU TEOLOGO DELLA LIBERAZIONE - Eppure, Romero fu davvero legato a doppio filo alla discussa corrente teologica sudamericana? E tale beatificazione può coincidere con una canonizzazione del movimento? Non è di questo avviso la Comunità di Sant’Egidio, che si rallegra per la scelta del Pontefice e che, per fugare ogni dubbio, cita sul suo sito un articolo del suo fondatore Andrea Riccardi apparso sul Corriere della Sera«Non era un teologo della liberazione – spiega Riccardi –. La biografia scritta da Roberto Morozzo Della Rocca, Primero Dios, ce lo mostra come un pastore vicino a Paolo VI. Nel 1977, da poco nominato arcivescovo, fu sconvolto dall’assassinio di Rutilio Grande, un parroco gesuita dalle spiccate capacità pastorali. Cominciò allora a difendere i diritti dei poveri e della Chiesa, come diceva. Lo accusarono di fare politica contro il potere costituito: ma lui non accettava che i salvadoregni fossero massacrati nella sanguinosa polarizzazione tra guerriglia e destra, e che fossero condannati alla miseria da un’oligarchia retriva». Il professore aggiunge quindi che «lo stravolgimento della figura dopo la morte fa parte del martirio contemporaneo». Romero, insomma, per la Comunità di Sant’Egidio fu martire due volte: in morte e in un ricordo alquanto impreciso post-mortem. Sulla stessa linea, Azione Cattolica: secondo don Emilio Centomo, Romero fu solo un «pastore convertito dal suo popolo». E «per fortuna che il popolo ci converte!», aggiunge, fugando ogni dubbio, l’Assistente Ecclesiastico Centrale di Azione Cattolica. Secondo tali interpretazioni, dunque, se anche Romero divenne uno degli «ispiratori» dei seguaci della teologia della liberazione per la sua vicinanza ai deboli e il suo impegno costante contro il regime, ciò non significa che fosse l’eversivo agitatore di qualche nuova teoria politica. Anche i suoi interventi più estremi, quando dal pulpito faceva i nomi e cognomi di chi opprimeva il popolo, sgorgavano da quella passione per la sorte dei poveri che è elemento ineliminabile della Tradizione della Chiesa. 

LA BEATIFICAZIONE, SCATTO FINALE DI FRANCESCO - La disposizione del Papa rappresenta quindi l'ultima tappa ella sorprendente accelerazione finale che ha segnato l'estremo cammino di Romero verso gli altari: i periti teologi del dicastero vaticano per i santi avevano espresso il loro parere unanime sul riconoscimento del martirio lo scorso 8 gennaio, mentre i vescovi e i cardinali della Congregazione hanno manifestato i loro voti positivi proprio oggi. Il placet papale alla promulgazione del decreto era previsto per il prossimo giovedì, ma il Pontefice ha accorciato i tempi con passo spedito. D’altronde, la causa di beatificazione di Romero era approdata a Roma già nel 1996, dopo che in Salvador era stata portata a termine la fase diocesana.  A Roma, operava in quegli anni un’influente fazione di alti prelati che ispiravano sotterranee resistenze alla canonizzazione di Romero: per lungo tempo, a giustificare il blocco della causa è stato l’esame realizzato dall’ex Sant’Uffizio sulle omelie, il diario e gli scritti pubblici del «monseñor», volto a misurarne la piena conformità alla dottrina cattolica. Lunghi anni e migliaia di pagine passate al setaccio hanno infine concluso che nel magistero episcopale di Romero non c’erano errori dottrinali.

UN CAMMINO IRTO DI OSTACOLI - Innegabile, tuttavia, il rapporto piuttosto freddo che Woj­tyla ebbe con Romero, tanto che gli inviò, negli anni, tre visite apo­sto­li­che, ovvero «ispe­zioni». Nel 1979, quando le denunce dell’arcivescovo di San Sal­va­dor contro le vio­lenze della dit­ta­tura mili­tare erano all’apice, Gio­vanni Paolo II rice­vette Romero in Vati­cano, per esortarlo, pare, ad andare d’accordo con il governo. Secondo lo testimonianza di Gio­vanni Fran­zoni, ex abate di San Paolo fuori le mura, rilasciata durante la sua depo­si­zione giu­rata nella causa di bea­ti­fi­ca­zioni di Wojtyla, lo stesso Romero confessò a una religiosa salvadoregna: «Non mi sono mai sen­tito così solo come a Roma». Solo post mor­tem, nel 1983, durante un viag­gio in Sal­va­dor, Gio­vanni Paolo II si recò a pre­gare sulla tomba del «monseñor», nonostante, sembra, i molti consigli contrari. Sotto il pon­ti­fi­cato di Ratzin­ger, le cose non cam­bia­rono. L’unica testi­mo­nianza resta una dichia­ra­zione di Bene­detto XVI nel 2007 sull’aereo che lo stava por­tando in Bra­sile: Romero è «un grande testi­mone della fede» ed è «degno di bea­ti­fi­ca­zione». Eppure, non accadde nulla.

FRANCESCO TENTA DI SDOGANARE LA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE? - E che il pro­cesso sia stato con­tro­verso lo ha ammesso anche monsignor Paglia, postulatore della causa: «Il pro­ce­di­mento è stato lungo, meti­co­loso e ha fugato ogni tipo di pro­blema e anche ogni tipo di oppo­si­zione», ha spie­gato a Radio Vaticana. Prima di lui lo aveva rico­no­sciuto lo stesso Papa Ber­go­glio, l’estate scorsa, tor­nando dalla Corea del Sud: il pro­cesso era «bloc­cato per pru­denza», ma  finalmente, diceva, «adesso è sbloc­cato» e «i postu­la­tori devono muo­versi per­ché non ci sono impe­di­menti». D’altra parte, già da tempo e senza biso­gno di auto­riz­za­zioni eccle­sia­sti­che i cat­to­lici lati­noa­me­ri­cani invo­cano l’ex arci­ve­scovo di San Sal­va­dor come «San Romero d’America». Per questo, l’atto di Ber­go­glio avrà, secondo molti, un grande impatto, soprattutto nel con­so­li­da­re la sua imma­gine di Papa che guarda con atten­zione ai movi­menti popolari e che, per difendere il suo sogno di «Chiesa per i poveri», è capace anche di atti coraggiosi. Nel frattempo, è lecito domandarsi se questo atto possa considerarsi un passo verso la piena ria­bi­li­ta­zione, in vita, di tanti teo­logi, molti lati­noa­me­ri­cani, messi ai mar­gini o ridotti al silen­zio dai propri predecessori. Uno «sdoganamento» della teologia della liberazione – se così fosse – iniziato già da tempo, almeno da quando, nel settembre 2013, Francesco incontrò il padre peruviano Gustavo Gutierrez, fondatore della «controversa» corrente teologica. Che la beatificazione di Romero sia un altro passo in quella direzione?