Catalogna, la partita ormai è chiusa. Ecco cosa succederà
Se il presidente della Catalogna Carles Puigdemont fosse un giocatore di scacchi in questo momento vedrebbe sulla scacchiera i suoi pochi pezzi accerchiati da un selva di regine e torri minacciose

BARCELLONA - Se il presidente della Catalogna Carles Puigdemont fosse un giocatore di scacchi in questo momento vedrebbe sulla scacchiera i suoi pochi pezzi accerchiati da un selva di regine e torri minacciose. Ma, con ogni probabilità, l’uomo che è giunto a fare una rivoluzione quasi per caso, non è uno scacchista. Oppure, se lo è, è uno scacchista emotivo, di quelli che aprono e vanno all’attacco, mangiando qualche pezzo importante all’avversario, cieco di fronte alla difesa che lascia aperta alle successive scorribande. Non poteva evolvere in modo peggiore la lotta per l’indipendenza catalana. Debole fin dal principio, perché la società è spaccata e soprattutto le periferie povere della grande Barcellona non sono affatto entusiaste di una secessione che gli porterebbe più che altro guai.
Non sono riusciti a capitalizzare la vittoria
Il variegato movimento indipendentista catalano non è stato in grado di capitalizzare politicamente la vittoria, simbolica, successiva alle violenze della Guardia Civil nel giorno del referendum. Forte delle immagini sconcertanti che hanno fatto il giro del mondo, enormi poliziotti nero vestiti che menavano gente disarmata, Puigdemont e la sua gente dovevano chiudere la partita portando a casa il più possibile. Ma si sono imbarcati nel tipico errore di chi è diviso, ma sarebbe meglio dire balcanizzato, al suo interno. Tutto ciò accade da sempre: la divisione tra tattici e oltranzisti è vecchia come il mondo, e in quanto tale il risultato è sempre scontato. Nel 66 d.C Gerusalemme ribolliva di collera contro i romani. La rivolta scoppiò in parte per colpa del nuovo governatore Floro, un ladro, ma soprattutto in virtù di una nuova imposta che rese insostenibile la pressione fiscale che gravava su una società fortemente indebitata.
Cosa successe quando Gerusalemme si ribellò
Un lancio di monetine sulla precessione governativa da parte di giovani ebrei dà il via a una feroce rappresaglia romana: foreste di croci vengono alzate in città. Il reuccio locale, Agrippa, in origine cavalca la protesta, ma poi chiede alle varie comunità ebraiche, in primis agli zeloti, di darsi una calmata. Lo fa attraverso un lungo, e notissimo, discorso, il cui succo è: i romani ci annienteranno, qui e ovunque. Agrippa è un uomo di mondo e sa come andrà a finire quella storia dell'indipedenza da Roma: salva la pelle dal linciaggio, e la rivolta scoppia. La guarnigione romana è assediata nella fortezza Antonia. I moderati, tra gli ebrei, concordano una resa e promettono ai centurioni salva la vita. Ma questi, appena usciti, trovano gli oltranzisti, per lo più zeloti, tagliano la gola a tutti i romani in primis, e in secondis a tutti i moderati che avevano chiuso quel patto. Il sommo sacerdote viene assassinato,e subito dopo l’edificio che ospita i titoli di debito – era un mondo fortemente indebitato e come noto il debito porta alla ribellione – è dato alle fiamme.
La ferocia, la follia e la lezione da imparare
La storia poi prosegue con l’arrivo del maniscalco, generale, Vespasiano, e il tradimento di Flavio Giuseppe, comandante degli insorti durante il governo provvisorio, che dopo essere stato catturato passa armi e bagagli con Vespasiano, a cui fa una profezia: «Sarai imperatore». E quello ovviamente compiaciuto se lo prende seco, per altro salvandogli la vita dai suoi ex sodali che lo cercano per regolare i conti. Vespasiano, dopo aver raso al suolo la Galilea – leggi alla voce «pacificato» - mette sotto assedio Gerusalemme, che si trasforma in un inferno. «Madri pazze dopo aver mangiato la carne dei figli, selve di croci, mute di cani e uomini che mangiano i cadaveri», raccontano gli storici romani del tempo, ma soprattutto una guerra intestina tra i signori della guerra ebrei che sono asserragliati dentro le mura di Gerusalemme. La città cade, distrutta, vittima di una tattica folle, nonché della ferocia di Tito, figlio di Vespasiano che decide di impartire una lezione al mondo intero che vorrebbe ribellarsi a Roma.
La Spagna come Roma?
Ora il parallelo tra la rivolta di Gerusalemme del 66 c.C e Barcellona si puà sfruttare più come un parallelo di costume, più che altro per spiegare come vanno a finire queste cose quando: A) I rapporti di forza sono fuori scala, B) Gli insorti sono divisi al loro interno, C) Non vi sia alcuna solidarietà esterna verso chi protesta.
Puigdemont e i suoi sono ovviamente divisi, il discorso che ha fatto pochi giorni fa in cui diceva qualcosa tipo «indipendenza, indipendenza ma non subito», vagamente agostiniano, tentava maldestramente di tenere insieme realisti (Agrippa, che poi sarebbe lui) e oltranzisti (zeloti). Ovviamente la Spagna è la grande Roma - almeno agli occhi dei catalani più accesi - e Barcellona la piccola Gerusalemme, mentre oggi come allora a nessuno interessa la lotta per l’indipendenza giudaica e catalana.
Assedio e resa senza condizioni
Madrid quindi sta andando all’assedio, in attesa che Barcellona esploda, vittima delle sue contraddizioni, e dichiari la resa senza condizioni. Puigdemont con ogni probabilità farà la fine, politicamente, del sommo sacerdote, oppure di Flavio Giuseppe, il comandante passato armi e bagagli con Vespasiano. Si rifece una vita agiata a Roma, divenendo storico. L’unica via d’uscita, per Barcellona, è una trattativa fuori tempo massimo, che tenti almeno di salvare la dignità. Se Madrid non cadrà nell’errore di mandare i carri armati, l’inutile e folle violenza di qualche settimana fa, la partita è ormai chiusa. A meno che Puigdemont e i suoi non cerchino volutamente il martirio, perché, come noto, dal sangue dei martiri nascono legioni di combattenti. Ma è un finale che nessuno si augura.
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