29 marzo 2024
Aggiornato 15:00
La democrazia teatrale della UE

La Brexit proprio non va giù, e la «dittatura» europea passa alle minacce pesanti

Juncker e Tusk perdono la pazienza e nel giorno dell'addio firmato da Theresa May paventano scenari da incubo per la Gran Bretagna. In realtà, a perderci sono coloro che rimangono dentro all'Ue

LONDRA - Un feroce sentimento di rivalsa e di rabbia connota le reazioni ineleganti, ma sarebbe meglio dire sgangherate, dell’oligarchia europeista che ancora non digerisce la Brexit voluta dal popolo britannico pochi mesi fa. Sono in tanti a tifare scompostamente, ad auspicare la catastrofe per un paese che ha voluto contrastare quello che sembrava l’inesorabile incedere della storia. E così i commenti del giorno dopo, a livello politico e mediatico, sono una stucchevole riproposizione di quanto già sentito alla vigilia del referendum e, in dosi maggiori, appena dopo lo sconcertante esito che sancì l’uscita definitiva della Gran Bretagna dall’Unione europea. Ancora una volta è un coro di fiele a senso unico, che deborda nella minaccia a tutto campo.

Juncker e Tusk, degni rappresentanti del nuovo "Soviet europeo"
"Questo è un giorno triste perché i britannici hanno deciso per iscritto di lasciare la Ue, una scelta che rimpiangeranno un giorno. Ma mi sento bene stasera perché abbiamo parlato del nostro futuro": sono le parole con cui Jean Claude Juncker ha accolto sobriamente il giorno della Brexit. «Ve ne pentirete», dice il sempre lucido presidente della Commissione europea, evocando così scenari apocalittici futuri. Sulla stessa lunghezza d’onda il presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk: "La prima priorità sarà quella di minimizzare le incertezze provocate dalla decisione del Regno. Non c'è ragione di pensare che oggi sia un giorno felice. Thank you and good bye». Poi aggiunge una frase sibillina: «Nei negoziati per la Brexit avremo un approccio costruttivo e faremo di tutto per trovare un accordo. In futuro speriamo di avere il Regno Unito come partner vicino. Ma se il negoziato fallisce, faremo in modo che l'Unione europea sia comunque pronta ad un esito del genere, anche se non lo desideriamo». Parole che evocano, anzi invocano, scenari bellicosi, in cui la Gran Bretagna dovrà rispondere delle sue scelte sul piano economico e politico.

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Passo storico: verso la democrazia
Il passo intrapreso dalla premier Theresa May è storico: dopo quarantaquattro anni termina la corsa della Gran Bretagna in Europa, e dai confini della Ue esce un ottavo della sua popolazione. Al termine del negoziato un sesto del Pil europeo sarà solo ed esclusivamente «british»; così metà dell’arsenale militare e un seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Alan Johnson: "Perché la Brexit è la cosa migliore per il Regno Unito"
Ma non tutti prevedono catastrofi, anche perché quelle che dovevano verificarsi ancora languono. In un editoriale pubblicato sul New York Times, Alan Johnson, già segretario per gli Affari interni nel 2010, sostiene una posizione opposta. Riportiamo il suo intervento, ignorato dai media italiani, semi integralmente, perché portatore di una condizione ineccepibile.

«È stato l’economista liberista Friedrich Hayek, l’architetto intellettuale del neoliberalismo, che nel 1939 invocava un «federalismo interstatale» in Europa per evitare che gli elettori potessero utilizzare la democrazia per interferire con le operazioni del libero mercato. In altre parole, come ha detto il Presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker: «Non ci possono essere decisioni democratiche che si oppongono ai Trattati Europei». Le istituzioni e i trattati dell’Unione sono stati progettati di conseguenza. La Commissione Europea viene nominata, non eletta, ed è orgogliosamente libera da ogni responsabilità nei confronti degli elettori. «Non cambiamo le nostre decisioni a seconda di come vanno le elezioni » così il vice presidente della Commissione Katainen ha commentato la vittoria del partito anti-austerità Syriza, in Grecia, nel 2015. Il Parlamento europeo non è un vero Parlamento. Non ha vero potere legislativo; i suoi delegati non elaborano programmi politici né portano avanti idee che propongono agli elettori. Le elezioni, tenute in collegi elettorali assurdamente estesi, con affluenze pietosamente basse, non cambiano nulla. Come ha detto un membro dello staff parlamentare a un seminario per la Ricerca Europea alla London School of Economics: «Le uniche persone che ascoltano i Parlamentari Europei sono gli interpreti. Il Consiglio Europeo, un organo intergovernativo dove risiede il vero potere legislativo, specialmente se pensiamo alla tedesca Angela Merkel, è formato dai Capi di Stato dei vari Stati membri, che normalmente si incontrano quattro volte all’anno. Non sono eletti direttamente dagli abitanti delle Nazioni che governano. Se poi parliamo del principio di «sussidiarietà» dell’Unione, una presunta preferenza per il governo decentrato, esso viene ignorato in tutte le questioni pratiche. I desideri dell’elettorato vengono regolarmente ignorati. Quando, nel 2005, la proposta di una Costituzione Europea è stata rigettata dagli elettori di Francia e Olanda (la maggior parte dei Governi non ha nemmeno permesso che avvenisse un voto popolare), questo fatto non ha cambiato niente per i sostenitori del Progetto Europeo. Con qualche cambiamento cosmetico, la Costituzione è stata comunque imposta; solo che è stata ridenominata Trattato di Lisbona (l’Irlanda, unico stato a consentire un referendum sul Trattato, votò contro. Di conseguenza fu chiesto agli irlandesi di rivotare, finché non avessero votato nella maniera giusta. Questa è la democrazia secondo l’Unione Europea)».

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Si rompe il meccanismo
E’ chiaro da dove giunga il risentimento dell’oligarchia europea, che reagisce con rabbia ad un evento che scardina equilibri che si ritenevano eterni. Non solo, è adamantino quale sia il concetto di democrazia oggi presente in Europa: nell’epoca della post ideologia, ovvero la fine delle ideologie, viviamo il tempo più novecentesco che sia mai esistito. Perché come nelle dittature passate, che avevano almeno il «pregio» di definirsi tali, oggi il potere è detenuto da un manipolo di uomini che, orgogliosamente, rivendicano l’alienazione da ogni tipo di investitura democratica. Le elezioni nazionali sono spettacoli pro-forma, immensi teatri su cui il popolo si azzuffa, ininfluenti sul piano materiale, come rivendicato da Juncker nel passaggio sopracitato, perché la democrazia nazionale non si può opporre alla dittatura europea. Spiace, ovviamente, constatare la misera fine di un processo nato con alti fini civili, sociali e culturali, trasformatosi nel tempo in un incubo. Da cui però qualcuno, coraggiosamente e fortunosamente, è uscito.