23 aprile 2024
Aggiornato 09:00
I talebani ci sono ancora, l'oppio anche

Afghanistan, 15 anni di guerra NATO. Il risultato? Il rifiorire del traffico di droga

L'unico risultato che l'intervento Nato in Afghanistan - lungi dal pacificare il Paese - ha avuto è stato uno sconvolgente aumento del traffico di droga. E non per colpa dei talebani.

A 15 anni dall'intervento in Afghanistan, emergono nuovi, inquietanti scenari.
A 15 anni dall'intervento in Afghanistan, emergono nuovi, inquietanti scenari. Foto: Shutterstock

KABUL - Che le missioni occidentali in Iraq e in Afghanistan siano state poco efficaci non è certamente un mistero. In quanto all'Iraq la situazione è sotto gli occhi di tutti: ci troviamo di fronte, oggi, a un Paese distrutto, dove imperversano non soltanto i jihadisti dello Stato islamico, ma anche violente divisioni settarie che rendono lo Stato ingovernabile e l’Isis ancora più difficile da sradicare. Quanto all'Afghanistan, il fatto che se ne parli sempre meno non significa che la situazione sia migliore. A dimostrarlo, i continui cambiamenti di programma di Barack Obama, che era divenuto Presidente degli Stati Uniti, tra le altre cose, sulla promessa di ritirare «responsabilmente» le truppe entro il 2014. Ma la deadline è stata rimandata più volte: nel 2014, la Casa Bianca ha annunciato che i militari presenti sarebbero stati ridotti a 5.500 entro la fine del 2015, e azzerati entro il 2016. Nel marzo 2015, Obama ha deciso di lasciare 9.800 soldati fino a fine anno. Qualche mese fa, l'ennesima retromarcia: quel contingente rimarrà fino a tutto il 2016, e il dossier finirà nelle mani del nuovo Presidente.

Le prove del fallimento Nato
Ma i continui ripesamenti di Obama non sono l'unica testimonianza del fallimento. Ad attestare fino a che punto nel Paese imperversi il caos ancora a 15 anni dall’intervento, la tragica notizia dell’uccisione, da parte dei talebani, del fotoreporter e video editor della rete americana Npr, David Gilkey, e del suo interprete, Zabihulla Tamanna. Del resto, lo stesso New York Times, qualche mese fa, ammetteva che ancora un quinto del Paese è nelle mani dei taliban, addirittura più radicati di quanto non lo fossero nel 2001. Ma se tutte queste «prove» non bastassero, ad aggravare il quadro c’è un aspetto poco approfondito della guerra in Afghanistan, eppure sconvolgente: una vera e propria «guerra dentro alla guerra», la «guerra dell’oppio». Perché, se l’intervento occidentale ha avuto un unico risultato, questo è stato l’aumento esponenziale della coltivazione del papavero e del traffico internazionale di droga.

Un aumento esponenziale
Come è possibile – vi chiederete –, visto che uno delle finalità ufficiali dell’intervento Nato fu proprio quello di sradicare il traffico di stupefacenti? Possibilissimo, dato che, se nel 2002 la produzione di oppio in Afghanistan crollò a 185 tonnellate, oggi si toccano punte di 5.000, 6.000, 7.000 tonnellate l’anno e Kabul produce il 93% dell’oppio mondiale. Tutto documentato nel magistrale libro/inchiesta «Afghanistan 2001-2016. La nuova guerra dell’oppio» (Arianna editrice) di Enrico Piovesana, giornalista di grande esperienza che, oltre ad aver lavorato per anni in Afghanistan come inviato di PeaceReporter, ha girato Pakistan, Cecenia, Nord Ossezia, Bosnia, Georgia, Sri Lanka, Birmania e Filippine.

Lo stop all'oppio del Mullah Omar
Perché in realtà, contrariamente a quanto si pensi, fu proprio il Mullah Omar a farla finita con il traffico dell’oppio, in precedenza attività estremamente remunerativa per un Paese martoriato da 10 anni di occupazione sovietica e 4 anni di guerra civile. Ma quando l’Afghanistan cominciò a riassestarsi, il leader dei talebani decise di seguire i precetti del Corano, impedendo l’uso e lo smercio di stupefacenti. Una decisione difficilissima, visto che a pagarne le conseguenze erano soprattutto i contadini, la base del suo regime. Eppure, anche se con molte difficoltà, Omar riuscì a convincerli a convertire la produzione di papavero con altre coltivazioni, e la produzione di oppio cominciò a crollare.

L'alleanza della Nato con i signori della droga
Peccato che, dopo qualche anno, sia arrivata la Nato. E con lei – scrive Piovesana – la decisione degli occidentali, per assicurarsi la vittoria sul campo, di allearsi proprio con quei «signori della droga» che il governo di Omar aveva cacciato dal Paese o innocuizzato, così come aveva fatto con le bande di predoni che durante la guerra civile avevano infestato l’Afghanistan.

Le responsabilità dei militari Nato
Ma non è stato solo per questo che la produzione e il traffico di oppio hanno ricominciato a crescere. La seconda ragione è ancora più grave: la documentata inchiesta di Piovesana ha appurato come siano stati gli stessi militari Nato, insieme ai soldati del cosiddetto esercito «regolare» e alla corrottissima polizia, a entrare nelle case e nei terreni dei contadini poveri, prendere l’oppio anche con la violenza (con la scusa della lotta al traffico di stupefacenti), per poi andare a raffinarlo in eroina nelle raffinerie che un tempo erano oltre confine e oggi sono a decine nello stesso Afghanistan.

E' davvero colpa dei talebani?
La vulgata tradizionale, ovviamente, imputa l’aumento del traffico di droga in Afghanistan interamente all’impegno dei talebani. Ma, secondo le cifre riportate nell’inchiesta, a loro sarebbe addebitabile solo il 2% dello smercio totale. Addirittura, secondo l’agenzia Fars News Agency, «nella sola provincia di Helmand è pieno di laboratori per la produzione di eroina, che prima dell’intervento americano non esistevano e che ora lavorano alla luce del sole».

C'entra anche l'Italia?
E anche gli italiani potrebbero c’entrare qualcosa in tutto questo. Non ci sono prove certe, ma un indizio inquietante: nel 2011 le accuse dell’ex caporalmaggiore Alessandra Gabrieli non solo rivelarono l’uso di droghe tra i militari italiani di ritorno dal fronte, ma adombrarono addirittura il loro coinvolgimento nel traffico di eroina dall’Afghanistan. Uno scandalo davanti al quale l’imbarazzo della Difesa fu enorme, e si preferì mettere l’intera vicenda sotto silenzio.

Nel segno del papavero
Al di là del coinvolgimento (da verificare) degli italiani, il quadro rimane gravissimo. Grave al punto da peggiorare il già tremendo scenario di quello scellerato intervento deciso all’indomani dell’11 settembre. Un intervento che, insieme ai successivi, avrebbe dovuto sconfiggere il terrorismo, e che invece ha finito per fomentarlo, addirittura aumentando il caos e l’illegalità imperanti nell’area. E il papavero – se non i morti, la riscossa dei talebani, l’Isis, l’ingovernabilità, la fame, i rifugiati – rimarrà il triste e scandaloso emblema di un fallimento che macchia senza appello la coscienza dell'Occidente.