18 aprile 2024
Aggiornato 19:30
Effetto indesiderato o strategia voluta?

Perché Obama ha lasciato il Medio Oriente nel caos

Se fino a poco fa gli Usa erano gli unici veri «burattinai» del Medio Oriente, con la politica del disimipegno perseguita da Barack Obama qualcosa sta cambiando. Ma da dove deriva questa reticenza? E quali sono le sue conseguenze?

WASHINGTON – La presenza americana in Medio Oriente è stata per decenni una realtà innegabile. Dal sostegno ad Israele, al respingimento dell’invasione irachena del Kuwait, fino alle discutibili avventure in Afghanistan e Iraq, gli Stati Uniti sono stati i principali burattinai dell’equilibrio mediorientale, e il loro ruolo, seppur odioso a tanti, era praticamente indiscutibile. Oggi, invece, molto è cambiato: la politica del disimpegno perseguita da Obama e suggellata in Siria sta ridisegnando le dinamiche geopolitiche della regione. Così, nel «vuoto» lasciato dagli Usa, emergono nuovi attori protagonisti: dalla Russia a Teheran, fino agli sciiti iraniani e allo Stato islamico. Secondo il Wall Street Journal, quello a cui stiamo assistendo da tempo è una progressiva e inesorabile erosione dell’egemonia americana in Medio Oriente. E’ vero che la presenza Usa nella regione rimane imponente, con 45.000 soldati e stretti rapporti con le diplomazie amiche (come Pakistan e Marocco); eppure, soprattutto da quando la Russia è entrata a gamba tesa nella guerra siriana a sostegno di Bashar al Assad e contro l’Isis, lo scolorire del ruolo di Washington sta diventando evidente. Ma quali sono le cause di questa inedita situazione?

Rischi superiori a vantaggi?
Per il quotidiano di Wall Street, molto è da imputarsi a un lucido calcolo dei rischi e degli affetti collaterali di quella politica interventista per anni condotta dagli States, con esiti altalenanti. L’America, dunque, semplicemente non sarebbe più disposta a esercitare ad alto prezzo la sua leadership nella regione. Altro motivo che avrebbe spinto Washington a cambiare direzione sarebbe il grande sforzo militare e finanziario che ha accompagnato le sue fatiche mediorientali dopo l’11 settembre: dal 2001, sono stati spesi addirittura 1.600 miliardi di dollari, e 6.900 soldati hanno perso la vita. Oltretutto, l’esito di quelle operazioni, alla lunga, ha mostrato forti elementi di debolezza. Secondo Brian Katulis, membro senior del «Center for American Progress» (think tank vicino all’amministrazione), la riluttanza ad impegnarsi in Medio Oriente è dovuta non soltanto dallo sfinimento per le campagne degli anni passati, ma anche ad una buona dose di pragmatismo: lo scetticismo a ripetere le esperienze del passato, cioè, sarebbe naturale, visti i dubbi risultati di un tale impegno.

Quali le conseguenze?
Ma quali saranno le conseguenze a lungo termine di questa azzoppata leadership? Per ora, gli Usa non ne stanno scontando troppo gli effetti. L’ultimo grave attentato terroristico risale al 2001, le ondate di rifugiati in fuga dalla Siria approdano in Europa, il prezzo del petrolio è rimasto basso, e la rivoluzione dello «shale oil» svincola l’America dalla sua dipendenza dal Medio Oriente. Ma non sarà così per sempre, e non solo perché i maggiori partner commerciali degli Usa ancora dipendono dall’oro nero orientale: l’Isis si espande, e l’inedita vicinanza tra Russia e Cina comincia a fare paura. Per non parlare degli effetti che il ritiro delle truppe in Afghanistan potrebbe avere sull’avanzata dei talebani, dopo la recente e drammatica presa di Kunduz. In più, l’accordo con l’Iran e la collaborazione con gruppi sciiti provoca notevoli malumori negli Stati del Golfo, il cui sanguinoso intervento in Yemen può essere in parte ricondotto a una sorta di «sindrome dell’abbandono».

E se questo Medio Oriente facesse comodo a Obama?
Una posizione decisamente difficile, dunque, per gli Stati Uniti di Obama: a maggior ragione adesso che Putin sembra determinato a riparare a decenni di assenza di Mosca nella regione. Eppure, c’è chi pensa che gli Usa non siano tanto «vittime» di una strategia fallimentare, ma che questo Medio Oriente caotico e sanguinoso, per il loro presidente, sia in realtà il migliore possibile. Lo sostiene Dario Fabbri su Limes, secondo cui l’unico e vero obiettivo di Obama sarebbe quello di «mettere le principali potenze locali l’una contro l’altra per scongiurare egemonie e ritirarsi dalla regione». Ingrediente utile alla strategia sarebbe addirittura lo Stato Islamico: lungi dal considerarlo una minaccia, la Casa Bianca lo riterrebbe un soggetto utile a perpetuare questo caos, e indurre le nazioni limitrofe ad impantanarvisi. «In nuce: il ‘califfato’ va contenuto, non obliterato. Come dimostrato dalla poca belligeranza dei caccia americani, che da quando è cominciata la missione internazionale contro l’Is nel 75% dei casi sono rientrati alla base senza aver sganciato neanche una bomba. E corroborato dalle recenti rivelazioni per cui gli analisti del Pentagono hanno ritoccato statistiche e notizie relative alla formazione jihadista con l’obiettivo di magnificare l’offensiva occidentale8 e presentare il nemico come prossimo al collasso», scrive Fabbri. In tale contesto, addirittura l’intervento russo sarebbe solo una svolta positiva: perché la strategia di Obama sarebbe quella di «creare vuoti in cui condurre partner e antagonisti, obbligandoli a devolvere preziose risorse in teatri secondari».

Intanto, Putin...
In ogni caso, che sia l’effetto non del tutto desiderato di una strategia geopolitica reticente e poco riuscita, o la conseguenza apparente di un preciso e più astuto piano, quello che si vede ad occhio nudo è la progressiva erosione della passata leadership di Washington nelle terre mediorientali, a fronte del prepotente emergere di Putin quale nuovo stratega e nuovo «leader» mondiale. E, si sa, quello che si vede a occhio nudo, nel mondo dei media e della propaganda, è spesso tutto ciò che conta. E Putin, almeno quella battaglia, l’ha già vinta: risultato tutt’altro che secondario.