Politi al DiariodelWeb.it: il problema non è come respingere, ma come accogliere
Dopo averci parlato di terrorismo e Isis, l'analista politico e strategico Alessandro Politi, ci illustra, in esclusiva, le sue considerazioni a proposito di missione anti-scafisti, immigrazione, e caos libico. E della migliore strategia - militare o diplomatica - per tentare di stabilizzarlo
ROMA - Ci ha già parlato di terrorismo, Isis e immigrazione, spiegandoci la portata effettiva dei rischi che siamo chiamati ad affrontare, e facendo il punto su questioni molto dibattute: in primis, la reale probabilità che reti organizzate di terrorismo, pronte a colpirci, ci arrivino in casa via mare, a bordo dei famigerati «barconi della disperazione». Ora, è la volta della Libia: l'analista politico e strategico Alessandro Politi, in esclusiva al DiariodelWeb.it, tratterà della missione anti-scafisti, di immigrazione e della miglior strategia da adottare per stabilizzare le coste del Nordafrica. Il tutto, in attesa di un nuovo, ricco appuntamento...
Politi, cosa pensa della missione navale in Libia contro i trafficanti?
Innanzitutto, l’80-90% dell’immigrazione clandestina reale verso l’Italia non si vede per mare e non avviene sui barconi: passa per altri canali. Poi, c’è l’immigrazione illegale televisiva. La missione navale europea è un progresso, perché certo che è un problema che riguarda tutta l’Europa ma rappresenta solo un cerotto al problema reale. In un territorio senza Stato come la Libia i traffici esistono. Anche quando c’era uno Stato per decenni i migranti sono partiti comunque. Poi ci sono stati gli accordi con Gheddafi, che ha fatto il lavoro sporco, ma in realtà gli immigranti illegali continuavano ad arrivare con un visto turistico. Comodamente.
Quale strategia dovremmo adottare allora nei confronti dell’immigrazione?
L'Europa tutta, tranne la Francia, è in deficit demografico: facciamo troppi pochi figli. La Francia è in surplus demografico non solo perché fa più figli e aiuta le famiglie, ma perché ha tanti immigrati. Le proiezioni demografiche dicono che nel 2030, massimo 2060, avremo un 27% di popolazione non nata in Italia. Possiamo decidere teoricamente di non averla: ma chi farà tutta una serie di lavori che gli italiani non fanno, soprattutto quando la gente in età da lavoro è sempre meno? Questo Berlusconi e Salvini non lo spiegano. Per truffare i loro elettori dicono solo: «L’Italia non sarà mai multiculturale, fermate l’immigrazione selvaggia». Tutta l’agricoltura si regge sugli immigrati, come larga parte della ristorazione e dei servizi ai nostri anziani. E questa immigrazione per lo più non è nemmeno extraeuropea. Molti altri vengono dal Maghreb ma anche dal Bangladesh e dalla Cina. Qualcuno propone di alzare dei muri, ma faccio notare che i muri, lungo la frontiera messicana, non hanno funzionato, tant’è che circa la metà della popolazione americana è oggi di nuovo latina. Il muro non funziona nemmeno in Israele, perché il 20% della sua popolazione è araba e, poiché vive in condizioni disastrose, continua a figliare. Lo stesso capita nei territori occupati. Il resto sono proclami che servono a raspare qualche voto da chi vuole farsi ingannare. Il problema non è come respingerli, ma come accoglierli, ed è un problema enorme, che non ha ricette magiche.
Sembra che l’Italia avrà un ruolo di rilievo nella missione contro gli scafisti. Un modo per rimediare alla pessima performance che ci ha contraddistinti in Libia nel 2011?
Questo tipo di logica non c’è, se ben interpreto l’intenzione del governo. Il ruolo che probabilmente avrà l’Italia è dovuto al nostro interesse nazionale: vogliamo evitare che la questione immigrazione diventi esplosiva. Che poi è quello su cui speculano politici come Salvini.
Di fronte al caos libico sarebbe per un intervento militare o per la soluzione politico-diplomatica?
La soluzione politico-diplomatica è quella più percorribile perché l’esperienza storica dice che ci vogliono 100mila soldati per conquistare la Libia – lo abbiamo fatto nel 1911, e comunque abbiamo dovuto affrontare due lunghe guerriglie successive –. Per reprimere, tra il ’22 e il ’36, la seconda rivolta senussita abbiamo avuto bisogno di 20mila uomini, per fronteggiarne 2-3mila male armati. Potete immaginare cosa significhi oggi scendere in un posto dove gli armati non sono 3mila ma molti di più e con armi non sofisticatissime ma che possono fare molto più male di una volta.
Insomma, una missione in Libia non potremmo permettercela...
Di certo noi siamo andati come europei in Afghanistan e in Iraq quando gli americani sono arrivati con la loro forza militare ineguagliabile. E hanno reso «vivibile» il terreno: in gergo tecnico si parla di creare un ambiente «permissivo». Un anno dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, l’ambiente è diventato sempre meno permissivo. Gli americani hanno perso la guerra in Iraq. In Afghanistan speriamo che le cose vadano meglio. E se vogliamo fare un intervento in Libia dobbiamo sapere che ci costerà moltissimo, a fronte di un debito pubblico non in grado di sostenerlo. Il problema non è fermarsi sulla costa ma riprendere tutto il territorio. Per essere particolarmente ottimisti non ce la caveremmo in meno di cinque anni. Gli israeliani, che hanno occupato solo un pezzo del Libano, ci sono rimasti 20 anni, e poi se ne sono dovuti andare, perdendo, perché il Libano meridionale è rioccupato da Hezbollah, e sono l’esercito mediorientale più capace in assoluto. E non è un caso che Israele in questo momento non stia facendo nulla.
Niente intervento in assoluto, dunque?
E’ evidente che c’è una situazione di disgregazione della Libia che non possiamo tollerare. Se la Libia diventa una Somalia non sarà però «ignorabile» come la Somalia, perché ce l’abbiamo qui, a pochi passi da casa nostra. Non sto dicendo che non faremo mai un intervento armato, però quella della Libia è una situazione in cui ora, se si evita di mettere il dito nell’ingranaggio, è meglio. E dobbiamo anche capire chi va e dove: la scorsa volta siamo stati costretti a intervenire perché i franco-britannici hanno preso l’iniziativa e gli americani hanno lasciato fare. Il risultato? Il caos, perché il Paese non è stato stabilizzato: non c’erano i mezzi per farlo. Gli americani si erano appena ritirati dall’Iraq e stavano per ritirarsi dall’Afghanistan. Ma senza prendere in mano il Paese, questo collassa. E i costi del collasso li paghiamo prima noi degli inglesi, degli americani e forse anche dei francesi. Non a caso, oggi gli altri Paesi stanno capendo, anche se in modo molto recalcitrante, che per gestire i flussi migratori che si riversano sulle coste italiane bisogna optare una ripartizione. E chi vi si oppone, come al solito, non sono i piccoli, ma i grandi: Francia, Spagna, Regno Unito. E Ungheria, a causa del suo governo xenofobo.
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