28 marzo 2024
Aggiornato 21:00
Il rebus greco

Atene non è Berlino

In questi giorni è di gran moda ricordare, come ha fatto anche il partito di sinistra greco Syriza nel suo manifesto di Salonicco, che vi fu un tempo in cui era la Germania a trovarsi sul baratro di una bancarotta, e che questa venne evitata solo grazie alla parziale cancellazione dei debiti contratti dal governo tedesco

ROMA – In questi giorni è di gran moda ricordare, come ha fatto anche il partito di sinistra greco Syriza nel suo manifesto di Salonicco, che vi fu un tempo in cui era la Germania a trovarsi sul baratro di una bancarotta e che questa venne evitata solo grazie alla parziale cancellazione dei debiti contratti dal governo tedesco dalla fine della prima Guerra mondiale al 1945.

QUANDO LA GERMANIA SI SALVÒ DAL FALLIMENTO - Correva l'anno 1953: durante la conferenza di Londra l'allora cancelliere Konrad Adenauer convinse 21 Paesi creditori (fra cui Italia e Grecia) a rinunciare a 16 miliardi di marchi (11 miliardi di dollari di allora, il 50% del Pil tedesco) di debiti di guerra fino a quando il Paese non si fosse riunito (quando nel 1990 questo evento si verificò i suddetti debiti vennero quasi totalmente cancellati), promettendo la restituzione dei restanti 16 in un arco temporale di 30 anni. Non solo. L'anno precedente il governo tedesco aveva ottenuto un prestito da 120 milioni di dollari, grazie alla mediazione di un italiano, Guido Carli, come raccontato da Fabio Savelli sul Corriere. Così facendo gli Alleati disinnescarono un possibile sentimento di rivalsa germanica (lo stesso che dopo la WWI contribuì all'ascesa al potere di Hitler), si garantirono il pagamento almeno in parte dei debiti tedeschi, ma soprattutto gettarono le basi di un blocco occidentale europeo da contrapporre all'influenza sovietica, dove la locomotiva Germania poté trainare il Vecchio continente. Berlino dal canto suo finì di onorare i suoi (scontatissimi) debiti in 50 anni, nel 2010.

IL PRIMATO DELLA POLITICA - Pesò quindi più la politica che l'economia, in un mondo che andava ad archiviare due conflitti mondiali sullo sfondo della Guerra fredda. Ora però gli Stati Uniti non guardano più all'Europa come un utile alleato da sostenere, anzi con la nascita dell'euro ne soffrono la concorrenza. Inoltre chi ricorda la conferenza di Londra proponendo una moratoria sul debito greco, dimentica il peso specifico dei due Paesi: se allora una Germania forte conveniva a molti, oggi lo stesso non si può dire per Atene. Certo un default greco avrebbe forti ripercussioni sulla tenuta euro, ma non è detto che tale prospettiva venga guardata con timore da Washington, gelosa del primato del dollaro, e nemmeno da Berlino che non ha mai nascosto il desiderio di creare due valute in Europa, una sorta di super marco per i Paesi «virtuosi» e un'altra moneta per i Paesi finanziariamente più deboli.

IL NODO QUANTITATIVE EASING - Per ora dalla Banca centrale europea arrivano segnali certamente non in linea con i desiderata tedeschi. Anzi l'annunciato piano di quantitative easing che molti analisti prevedono parta già il 22 gennaio, data del prossimo meeting del direttorio dell'Eurotower, potrebbe andare nella direzione opposta. In linea teorica, se Francoforte decidesse di acquistare titoli sovrani dell'Eurozona indistintamente ne diventerebbe il garante di ultima istanza e potrebbe alimentare sprechi e sperperi da parte di Stati deresponsabilizzati. Ora sebbene nessuno conosca con precisione le intenzioni di Draghi, stanno incominciando a circolare diverse ipotesi sulla forma che potrebbe prendere il tanto discusso quantitative easing.

LE POSSIBILI FORME DEL QE - Ad oggi, come racconta Rodolfo Parietti su Il Giornale, esistono quattro opzioni. La prima, molto riduttiva e quindi di scarsa efficacia, vederebbe la Bce acquistare solo titoli dei Paesi virtuosi, quelli con rating tripla A. Come seconda possibilità si immagina che l'Eurotower compri titoli di Paesi aderenti alla moneta unica, già emessi sul mercato, in proporzione alle quote di partecipazione delle singole banche centrali al capitale della Bce. La Germania trionferebbe con il suo 18% detenuto dalla Bundesbank, seguita da Francia (14%) e Italia (12%). Una variante dell'ipotesi appena citata potrebbe essere quella di vincolare il quantitative easing al Pil dei Paesi aderenti all'euro. Anche in questo caso, a beneficiarne sarebbe soprattutto Berlino, il cui prodotto lordo è pari al 29% di quello di Eurolandia e 12 punti sopra all'Italia. Improbabile, quindi, scrive Parietti «che Draghi scelga di procedere su questa strada dopo aver duellato per mesi con il capo della Buba, Jens Weidmann, sull'opportunità di mettere in piedi misure di stimolo sulla falsariga di quelle adottate soprattutto dalla Fed negli Stati Uniti». Infine l'ultima opzione è quella dove sarebbero le banche centrali nazionali a comprare titoli di stato del proprio Paese, sempre rispettando le quote di partecipazione alla Bce. In sostanza verrebbero creati dei fondi di garanzia nazionali per contrastare eventuali perdite della Bce sui titoli acquistati, da finanziare con tasse nazionali.