18 aprile 2024
Aggiornato 11:00
Stati Uniti

Il primo anno di Donald Trump, ovvero il cortocircuito del gradimento modesto

È trascorso un anno da quanto Donald Trump è entrato alla Casa Bianca come nuovo presidente degli Stati Uniti. Che cosa ha fatto in 365 giorni?

NEW YORK - La CNN lo definisce «exhausting», estenuante, questo primo anno di Donald Trump presidente degli Stati Uniti. Una scelta terminologica certo da contestualizzare, visto che la CNN è tra le emittenti più critiche verso il Commander-in-Chief e che Trump accusa più frequentemente di «fake news». Ad ogni modo, non si può negare che il primo anno del tycoon alla Casa Bianca sia stato pregno di avvenimenti, dibattiti, eventi, tensioni, discussioni, come forse mai era accaduto nella storia degli Stati Uniti d'America. Un anno decisamente poco convenzionale, perché, in effetti, lo stesso Trump è un Presidente non convenzionale. Un Presidente mediatico, politicamente scorretto, che bada poco alle convenzioni e alle tradizionali regole diplomatiche internazionali. Lo si è visto fin da subito, dalla incauta telefonata intercorsa con la leader di Taiwan, che ha fatto temere Pechino per la tenuta della sua politica, globalmente accettata, dall'«una sola Cina»; ma lo ha dimostrato anche in tante altre occasioni: non da ultimo, con quella imprudente definizione di shithole countries  appiccicata addosso con nonchalance a Paesi come Haiti, El Salvador, e tanti Stati africani da cui provengono molti immigrati, uno sgarro istituzionale (oltre che affermazione, qualcuno dice, vagamente razzista) che, in altri tempi e contesti, avrebbe potuto avere conseguenze disastrose.

Il cortocircuito del gradimento modesto
Senza contare, poi, le indagini sui presunti rapporti con la Russia, che hanno portato alle dimissioni del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Michael Flynn, oggi bomba potenzialmente pronta a esplodere nelle mani del procuratore Mueller. Trump resta il Presidente con il tasso di approvazione più basso degli ultimi decenni, nonostante, a differenza di tanti altri suoi predecessori, abbia di fatto mantenuto molte delle promesse fatte in campagna elettorale. E di tale cortocircuito lo stesso tycoon non pare disposto di capacitarsi: «Penso che nessun'altra amministrazione abbia mai fatto quello che noi abbiamo realizzato in un solo anno», avrebbe detto di recente al proprio Gabinetto. E le spiegazioni, in effetti, possono essere diverse. Qualcuno potrebbe far notare che nessun Presidente nella storia sia stato mai attaccato da televisioni e giornali quanto Trump; ma si potrebbe anche sottolineare come nessun Presidente nella storia sia mai stato tanto divisivo, fin da prima della sua elezione, quanto il tycoon. Il quale, va da sé, o lo ami o lo odi, visto che certe sue uscite non possono che rafforzare lo spirito della sua cricca di affezionati, ma seminare ancora più disgusto e indignazione tra coloro i quali, fin dal principio, lo hanno additato come la rovina degli Stati Uniti d’America e dell’Occidente in generale.

Economia
Senza voler sposare l’una o l’altra scuola di pensiero, è doveroso notare come Trump, durante il suo primo anno di presidenza, abbia essenzialmente messo in pratica ciò che aveva annunciato in campagna elettorale. Quanto all’economia, bisogna rilevare come i mercati abbiano costantemente festeggiato i suoi primi mesi alla Casa Bianca, come il Pil sia in perenne crescita (tendenza che in realtà dura dal 2009), e come, nel 2017, il tasso di disoccupazione sia al livello più basso dal 2000 a questa parte, al 4,1%. Unica nota amara, gli stipendi che, invece, crescono pochissimo, nonostante la quasi piena occupazione, probabilmente perché i nuovi posti di lavoro sono soprattutto a basso reddito. A dicembre, inoltre, l’amministrazione Trump ha approvato il tax bill, manovra che taglierà le tasse a quasi tutti gli americani, ma, in proporzione, soprattutto ai più abbienti. Una riforma che, seppur ampiamente criticata per gli effetti che snocciolerà nei prossimi anni, ha però fatto sì che alcune società, come Apple, riportassero negli Stati Uniti soldi che prima tenevano all’estero, o dessero dei bonus una tantum ai propri dipendenti. E Wall Street festeggia perché, ben lungi dal voler apportare più severe regolamentazioni ai mercati finanziari, Trump promette anzi di allentare quelle già esistenti. In questo senso, si può solo osservare che, se in campagna elettorale molti bollavano (e con ragione) Hillary Clinton come la candidata di Wall Street, il magnate newyorkese non si sta dimostrando da meno.

Commercio
Certo: gli esperti sono presi a discutere quanto i dati positivi dell’economia siano in effetti merito di Trump. Ma anche se non lo fossero, resta singolare come il gradimento del Presidente non riesca comunque a beneficiare della situazione, indubbiamente e innegabilmente positiva. Economia a parte, la presidenza Trump si è svolta nel segno dell’attivismo. Sul commercio internazionale, il magnate, come promesso, ha sancito la fine di grandi trattati di libero scambio come TTIP (che in realtà era già praticamente naufragato prima della sua elezione) e TPP, mentre il NAFTA, l’accordo con Messico e Canada, nonostante le minacce, è al momento ancora attivo. Quanto alla Cina, proprio ieri sono state approvate le prime tariffe su prodotti quali pannelli solari e lavatrici, che avvantaggiano la produzione statunitense.

Immigrazione
Sull’immigrazione, di recente Trump ha ribadito la sua intenzione di implementare la costruzione del muro al confine con il Messico, costringendo peraltro quest’ultimo a finanziarlo: per ora, però, si tratta ancora di una promessa. In compenso, il tycoon ha imposto un travel ban, un divieto di ingresso per persone provenienti da alcuni Paesi musulmani, più volte approvato e più volte sospeso o ridimensionato dai tribunali. Altro risultato, il ridimensionamento del Daca, ordine esecutivo che garantiva protezione agli 800.000 immigrati irregolari entrati negli Stati Uniti da bambini, peraltro alla base dei negoziati falliti che hanno portato allo shutdown degli scorsi giorni. Guardando ai numeri, inoltre, si può rilevare come il numero degli immigrati irregolari arrestati o espulsi sia aumentato del 30% rispetto al 2016, grazie a politiche più rigide introdotte dal Governo federale e dai singoli Stati, ma anche alle iniziative dell’amministrazione Trump contro le cosiddette «città santuario», città che garantiscono protezione agli immigrati irregolari che non violano la legge.

Sanità
Sulla sanità, invece, l’Amministrazione incespica: nonostante i Repubblicani controllino entrambi i rami del Congresso, sono falliti tutti i tre tentativi di abolire l’Obamacare, a causa delle divisioni dello stesso partito conservatore in materia. Tuttavia, l’approvazione della riforma fiscale a fine anno ha impresso una svolta al processo. La legge contiene infatti una norma che abolisce il cosiddetto «individual mandate», il controverso obbligo per tutti gli americani di contrarre una polizza sanitaria. Questo obbligo allargava il numero degli assicurati portando dentro il sistema anche persone giovani e sane, che in condizioni normali non si sarebbero assicurate, per dare così la possibilità economica alle compagnie assicurative di assicurare anche i malati cronici, le cui cure sono molto costose.

Politica estera
Quindi, la politica estera. Meno isolazionista di quanto annunciato in campagna elettorale, Trump ha comunque in alcuni casi impresso un decisivo cambio di direzione alle politiche del suo predecessore. In primis, rafforzando l’alleanza con l’Arabia Saudita in funzione anti-Iran, il vero grande nemico degli Usa di Trump, che non ha mai nascosto di voler stracciare l’accordo sul nucleare. Quindi, non esitando a compiere azioni dimostrative forti (il raid in Siria dopo il presunto attacco chimico imputato ad Assad, o la «madre di tutte le bombe» sganciata in Afghanistan) per riaffermare davanti al mondo intero la potenza degli Stati Uniti d’America. Come non citare, poi, la decisione di riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele, ricucendo dunque gli strappi che si erano consumati, a fasi alterne, tra gli Usa di Obama e Netanyhau, e provocando una dura reazione della comunità internazionale in sede ONU. Inoltre, durante il primo anno di mandato di Trump, è andata in scena una vera e propria guerra di dichiarazioni a distanza con la Corea del Nord di Kim Jong-Un, alle cui provocazioni il magnate americano non ha mai esitato a rispondere con toni veementi (si ricorderà la disputa sulle dimensioni dei relativi «bottoni nucleari»). E ancora, l’addio a tante organizzazioni internazionali e consessi di cui gli Usa facevano parte: l’Unesco, il Global Compact on Migration, l’accordo sul clima di Parigi, il Consiglio dei Diritti Umani. Infine, il taglio dei contributi al budget delle Nazioni Unite, ma anche al Pakistan e ai palestinesi, a suo dire poco solleciti nel dimostrare gratitudine e rispetto ai propri benefattori. Il tutto, come conseguenza di una rinnovata esigenza di pensare, innanzitutto, agli interessi americani, in conformità con quanto affermava lo slogan elettorale «America First».

Disgelo con Mosca? Non pervenuto
Non rinvenuto, invece, il disgelo tanto promesso con la Russia di Vladimir Putin, con la quale, al contrario, la contrapposizione in diversi campi sembra proseguire secondo la direzione impressa dalle altre amministrazioni. Nessun cambio di direzione concreto sulla Nato, né tantomeno sulla questione ucraina, né sulle politiche mediorientali. Una conseguenza, probabilmente, dell’ardore con cui l’FBI sta perseguendo le sue indagini sul Russiagate, ma anche dell’inevitabile influenza degli apparati, che mai erano parsi disposti a riconsiderare la direzione della politica estera americana in relazione ai rapporti con Mosca.