18 aprile 2024
Aggiornato 08:30
A giudicare dagli ordini esecutivi...

Trump l'anti-Obama: la sua strategia è mantenere le promesse (per ora)

Apparentemente banale, ma, nel panorama politico attuale, decisamente in disuso. La strategia di Trump rovescia il paradigma obamiano: meno voli pindarici, più promesse mantenute

WASHINGTON - «Oggi vi dico che le sfide che affrontiamo sono reali. Sono serie e sono molte. Non saranno vinte facilmente o in un breve lasso di tempo. Ma sappi questo, America: saranno vinte. In questo giorno, ci riuniamo perché abbiamo scelto la speranza sulla paura, l'unità degli scopi sul conflitto e la discordia. In questo giorno, veniamo per proclamare la fine delle futili lagnanze e delle false promesse, delle recriminazioni e dei dogmi logori, che per troppo a lungo hanno strangolato la nostra politica».

La promessa
Con queste parole, il carismatico senatore dell'Illinois Barack Hussein Obama si insediava alla Casa Bianca, dopo una ispirata campagna elettorale che ha letteralmente rivoluzionato la storia della comunicazione. Uno dei fili conduttori di quel discorso gravitava attorno a un concetto che i politici, soprattutto in tempo di elezioni, conoscono molto bene: la promessa. Obama, con l'expertise retorica che sempre l'ha caratterizzato (e ha caratterizzato i suoi collaboratori), aveva colto esattamente una delle istanze più pressanti dell'elettorato statunitense: lo scoramento derivante da una classe politica che promette (benessere, equità, giustizia, pace, la sconfitta del terrorismo), e poi non mantiene. Così, quell'ex avvocato di origini kenyane che sembrava destinato a rivoluzionare il mondo si è presentato con una promessa ambiziosa: non solo che sì, «ce la possiamo fare»; ma anche che il tempo delle false promesse sarebbe finito a breve.

Aspettative disattese
Oggi, otto anni più tardi, possiamo dire che con quelle parole Obama ha probabilmente firmato la propria vittoria, ma anche la più cocente delle sconfitte. Il Presidente dalle promesse forse più ambiziose degli ultimi decenni ha poi lasciato la Casa Bianca srotolando, dietro di sé, un tappeto di aspettative clamorosamente disattese. Come quel premio Novel per la Pace vinto nel 2009, che più che un riconoscimento costituiva una promessa in sé. E oggi, otto anni dopo, il mondo non è affatto più sicuro e più in pace di quando Obama entrò per la prima volta nella Stanza Ovale.

Dagli uomini «del dire» all'uomo «del fare»
Donald Trump, anche lui indubbiamente stratega della comunicazione – seppur con uno stile totalmente diverso rispetto a quello del suo predecessore – ha certamente compreso che gli americani sono ancora più insofferenti alla questione di otto anni fa. Lo scoramento è arrivato a livelli insostenibili, insieme alla disillusione e alla rabbia. Ed è su questo che ha deciso di puntare. Ma lo ha fatto, questa volta, ribaltando il paradigma: non più discorsi visionari, pieni di promesse difficili o impossibili da mantenere; ma una comunicazione «terra a terra», basata su slogan semplici e diretti (ma anche piena di «false gaffe», bordate, affermazioni tanto eclatanti quanto memorabili e un costante sdoganamento del «politicamente scorretto»), articolata su proposte concrete e tangibili, di evidente rottura con il passato. Proposte non destinate a rimanere lettera morta, ma messe in pratica subito (perlomeno nella loro fase embrionale), nelle sue primissime settimane di presidenza. Ed ecco qui il ribaltamento: basta con gli uomini «del dire»; per fare l'America di nuovo grande, serve l'uomo del «fare». E Trump ambisce esattamente ad indossare questi panni.

Gli ordini esecutivi che mantengono la parola
Lo dimostrano i numerosi ordini esecutivi che il tycoon newyorchese ha firmato nelle prime ore trascorse nello Studio Ovale. Stop al TPP, più infrastrutture, via libera agli oleodotti bloccati da Obama, più deportazioni, stop all'immigrazione da 7 Paesi musulmani, il muro con il Messico, fine dell'Obamacare, piano di guerra all'Isis in 30 giorni. Tutti semplici ordini esecutivi, cioè provvedimenti firmati dal Presidente che indirizzano le politiche esecutive delle agenzie del Governo americano, e che hanno forza di legge solo se emessi da un'autorità legislativa. Nessun valore vincolante, insomma, ma sicuramente un atto simbolico importante, perché costituiscono un messaggio tanto ai suoi sostenitori quanto ai suoi nemici: Donald Trump mantiene la parola. Dalla prima all'ultima.

Immagine di efficienza e deterrenza
Una strategia «banale», se vogliamo, ma vincente. Vincente perché la politica ci ha disabituati all'efficacia della propria azione e alla coerenza tra aspettative e risultati, rendendoci avvezzi, semmai, a voli pindarici dall'epilogo che il mito greco ha riservato a Icaro. E' ovviamente ancora presto per tracciare un bilancio sulle «promesse mantenute» di Trump; certo è che la cesura con Obama è (volutamente) evidente. Ed è parte di una strategia ancora più ampia, che molto ha a che fare con lo slogan prescelto in campagna elettorale «Make America Great again»: l'intenzione, cioè, di recuperare agli Usa un'immagine di deterrenza  internazionale che con Obama era andata perduta.

Le promesse non mantenute di Obama in politica estera
L'elenco delle promesse non mantenute del 44esimo presidente Usa è lungo. In politica estera, non è riuscito a ritirare le truppe dall'Iraq entro i suoi primi 16 mesi di presidenza come aveva promesso, e tantomeno ha fatto con l'Afghanistan, dove non solo ha più volte posticipato il momento di riportare a casa i soldati americani, ma ha anche inviato nuove truppe, finendo per consegnare nelle mani del suo successore lo scottante dossier ereditato da George W. Bush. Per non parlare della promessa «implicita» nel Premio Nobel per la Pace ottenuto nel 2009. Il rocambolesco intervento in Libia del 2011, la gestione fallimentare della crisi siriana, una disattenta compiacenza per le Primavere arabe, una certa sottovalutazione del fenomeno del terrorismo islamico e l'incapacità, di fondo, di invertire certe dinamiche, come una politica di partnership mediorientali piuttosto spregiudicata, che non ha mai disdegnato l'alleanza di alcuni «sponsor» del terrorismo islamico quali gli Stati del Golfo. A ciò si aggiunga una conseguente indifferenza per le catastrofi umanitarie causate da Stati amici (quale l'Arabia Saudita) in teatri bellici (volutamente) dimenticati come lo Yemen. Per non parlare, ovviamente, della evidente escalation di tensione con la Russia, certamente non la migliore garanzia di pace e sicurezza per il mondo.

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Politica interna
Non solo: anche nelle questioni interne, tanti sono stati i buchi nell'acqua. L'Obamacare è una promessa (in parte) mantenuta, che pure, per vedere la luce, ha dovuto accettare diversi compromessi. A questo proposito, Obama non è mai riuscito a mantenere l'impegno tagliare il costo di una tipica assicurazione sanitaria familiare di una cifra massima di 2500 dollari all'anno. E ancora, il predecessore di Donald Trump ha fallito laddove aveva promesso di introdurre un fondo di 10 milioni di dollari per aiutare i proprietari a rifinanziare o vendere le proprie case, limitando le speculazioni. Non è riuscito a mettere una significativa stretta, come promesso, alle intercettazioni senza mandato introdotte da Bush, scendendo infine a un compromesso decisamente al ribasso. Neppure ha introdotto regole più severe contro il fenomeno delle «porte girevoli» per lobbisti ed ex funzionari. Non è riuscito a introdurre, come da programma, un percorso semplificato di acquisizione della cittadinanza per gli immigrati senza documenti, né a chiudere Guantanamo; neppure ha mantenuto l'impegno di rafforzare la sicurezza delle frontiere, come aveva assicurato nel 2008. Ancor più importante, se anche la ripresa dell'economia c'è stata, Obama ha mancato l'ambizioso obiettivo di ridurre il divario economico tra ricchi e poveri. Nessuna legge sulle armi, per la fiera opposizione dei repubblicani; neppure un significativo smorzamento della tensione sociale tra bianchi e afroamericani, come le sue origini (oltre che le sue dichiarazioni) lasciavano sperare.

Questioni di portata internazionale
Anche sul piano di questioni di portata internazionale, Obama ha inanellato diversi fallimenti. Si pensi al riscaldamento globale: l'ex presidente Usa aveva promesso di creare un sistema di obiettivi intermedi per ridurre il fenomeno del «global warming», che avrebbe dovuto portare a una progressiva riduzione delle emissioni fino a un -80% entro il 2050. Un progetto che Obama ha abbandonato (suo malgrado), a causa della fiera resistenza repubblicana. Anche l'obiettivo di ridurre il consumo di petrolio del 35% entro il 2030 è stato mancato, visto che, nonostante i tentativi di regolamentazione, è passato dai 18,7 milioni di barili al giorno del 2009 ai 19,4 del 2015. Lo stesso si dica sulla proliferazione nucleare: l'impegno assunto con l'illuminato discorso di Praga del 2009 (che peraltro, tra le altre cose, gli è valso il Nobel) non ha impedito agli Stati Uniti di sviluppare le micidiali bombe nucleari  B61-12 e altre 4 testate atomiche, oltre a perseguire un programma di robusto ammodernamento delle armi nucleari, anche sulla scia di quanto fatto da George W. Bush. Non a caso, nel 2008, nel pieno della sua campagna elettorale, gruppi di attivisti si augurarono che la nuova amministrazione potesse fermare i lavori dell’impianto di Kansas City voluto da Bush, ma l’impianto, con armi da 700 milioni di dollari, è sopravvissuto alla promessa di Obama.

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Fallimento politico
Promesse troppo ambiziose? Aspettative troppo alte? Certamente. Si aggiunga anche che quella sopra riportata è una fotografia necessariamente parziale, che non tiene conto di molti fattori. Si potrebbe, ad esempio, obiettare che il Congresso a maggioranza repubblicana ha sbarrato tante volte la strada a Obama. Verissimo: ma anche quello è stato sintomo di un sostanziale fallimento politico, tanto più che l'allora Presidente, tra le sue tante promesse, si era anche impegnato a superare le divisioni, e a «voltare per sempre la pagina dell'eccessiva partigianeria politica che domina a Washington». Un obiettivo che, insieme a molti altri prefissati, era evidentemente difficile da centrare.