19 aprile 2024
Aggiornato 06:30
Dopo il bando agli immigrati da 7 Paesi islamici

Perché nessuno dice che prima del «razzista» Trump ci sono stati Obama e Bill Clinton

Tanto si è detto e si potrebbe dire sul «bando» di Trump ai rifugiati da 7 Paesi islamici. E poi c'è quello che nessuno dice: perché, prima di Trump, ci sono stati Barack Obama e Bill Clinton.

NEW YORK - Se c'è una cosa in cui Donald J. Trump si sta evidentemente distinguendo dalla politica «tradizionale» alla cui siamo più avvezzi, è il suo «vizio» di mantenere le promesse. Aveva giurato che avrebbe stoppato la spinta ai «mega accordi commerciali» in stile TPP e TTIP, e ha subito annunciato il ritiro degli Usa dal Trattato di Parternariato transpacifico; aveva annunciato un pugno più duro sull'immigrazione, soprattutto in relazione al pericolo di infiltrazioni terroristiche islamiche, e ha interrotto per 90 giorni gli arrivi dai 7 Paesi islamici (Libia, Iraq, Iran, Siria, Yemen, Somalia, Sudan) e per 120 il programma di accoglienza americano dei rifugiati. Sul muro del Messico, è ancora presto per esprimersi, anche se il Presidente si è impegnato nella direzione promessa almeno formalmente (con un ordine esecutivo), al punto che, nelle scorse ore, si parlava della possibile imposizione di una tassa del 20% sulle merci messicane per finanziare la colossale opera pubblica. 

Attenzione e scandalo
Tutte decisioni comprensibilmente destinate a suscitare dibattiti, proteste e scandalo, soprattutto perché a portarle avanti c'è colui dal quale i media non hanno tolto gli (indignati) occhi di dosso nel corso di tutta la campagna elettorale. Un'attezione spasmodica a quei suoi modi ben poco fini e politicamente scorretti che l'establishment (politico, mediatico, culturale) benpensante ha subito condannato in massa. Peccato che, mentre puntava il dito, ampliava ulteriormente la platea di spettatori, e finiva così per fare, suo malgrado, il gioco del tycoon. Le sue tutt'altro che inavvertite gaffe; le sue uscite ben poco garbate; il suo sessismo, persino; i suoi slogan reaganiani accompagnati da vaghissime ricette politiche: tutto ciò che nauseava le elites (o pseudo-tali) finiva per stuzzicare la «pancia» dell'America: quell'America che, come avviene anche in Europa, si sente da troppo tempo sacrificata sull'altare di tutt'altri interessi. E, alla fine, gli elettori hanno visto in Trump quell'autenticità che manca ai vari guru della politica, di certo carismatici, ma disattenti alle istanze profonde del popolo.

Non solo Trump
Tanto si è detto e si potrebbe dire su quello che è stato ribattezzato come il «muslim ban», che ha suscitato proteste negli Usa e in tutto il mondo. Qualcuno, ad esempio, ha fatto notare come, nella lista «nera», non compaiano gli Stati del Golfo, che hanno dato i natali ai terroristi dell'11 settembre e che sono notoriamente finanziatori del terrorismo islamico. Critica fondata, ma che non restituisce pienamente lo stato dell'arte. Perché, al di là delle opinioni politiche e morali sul provvedimento in questione, quello che nessuno dice è che Donald Trump – che all'unisono si accusa di razzismo – non è stato affatto il primo Presidente a metterlo in atto.

Altri 6 bandi prima di Trump
Gli Usa, tradizionalmente considerati terra promessa di immigrazione e su di essa storicamente fondati, negli ultimi 200 anni hanno preso provvedimenti simili a quello di Trump per 6 volte: dal 1882, quando il presidente Arthur bandì per 10 anni i lavoratori cinesi, al 1939, quando Francis Delano Roosevelt limitò a 26mila il numero di rifugiati ebrei tedeschi che gli Usa potevano accogliere, ritenendo che la loro presenza potesse porre una minaccia per la sicurezza nazionale qualora spie naziste si nascondessero tra di loro. Non solo: in quattro lustri gli Usa bandirono gli anarchici, i comunisti, gli iraniani e i malati di HIV.

E poi c'è Obama
Vi è però anche un settimo caso, pochissimo noto alle cronache: quello che riguarda il presidente Barack Obama. Perché, come ha puntualizzato lo stesso Trump nel tentativo di difendersi dal fuoco incrociato di questi giorni, il suo predecessore, apparentemente tanto «accogliente», adottò una politica simile nel 2011. Tutto iniziò nel 2009, con l'arresto di due iracheni nel Kentucky con l'accusa di terrorismo. Le indagini appurarono che si trattava di due estremisti che avevano attentato alla vita dei soldati americani in Iraq, ma soprattutto che erano numerosi gli «ex insurgent» sul suolo Usa. Da qui, la decisione di Obama non solo di moltiplicare i controlli sugli iracheni già presenti negli Stati Uniti, ma anche di sospendere per 6 mesi l'arrivo di rifugiati di quella nazionalità. Che – caso vuole – è nella lista fornita da Trump.

La stessa lista da Obama a Trump
Lista che, peraltro, era stata messa a punto esattamente allo stesso modo dall'amministrazione Obama: anche allora, dunque, si ritenevano Stati come l'Arabia Saudita – notoriamente finanziatori del terrorismo ma formalmente (e soprattutto «preziosi») alleati dell'America – esenti dal rischio di radicalizzazione.

Le differenze, le somiglianze
Vero è che, tra i due episodi, le differenze esistono. Nel caso di Obama, si trattò di una sola nazionalità messa al bando dopo una vicenda che aveva evidenziato una minaccia reale; oggi ne sono state bandite 7, e apparentemente senza palesi segnali di rischio. E' vero infatti che i responsabili degli ultimi attentati che hanno flagellato l'America avevano cittadinanza americana. Altrettanto vero è, però, che non si possano escludere infiltrazioni terroristiche attraverso i canali tradizionalmente seguiti dall'immigrazione: nessuno stupore, dunque, che un provvedimento del genere (anche solo come segnale propagandistico) venga preso da parte di un politico che ha fatto della sicurezza e della priorità degli americani il proprio manifesto programmatico. Trump, insomma, per ora non manca di coerenza.

Obama e le deportazioni
Chi forse ha mancato di coerenza è stato Obama, insignito nel 2009 Nobel per la Pace, ma di fatto incapace di sottrarsi a certe logiche dell'imperialismo americano. Proprio parlando di immigrazione, nonostante una retorica inclusiva e rassicurante, neppure il predecessore di Trump si è mostrato poi così generoso come si potrebbe pensare. Dal 2009 al 2015, la sua Casa Bianca ha infatti deportato 2,5 milioni di immigrati, con un aumento del 20% rispetto ai quasi 2 milioni di persone che l’amministrazione Bush ha deportato in 8 anni. Non solo: il bilancio delle deportazioni di Obama è superiore al totale di tutti i Presidenti del XX secolo messi insieme. Nel luglio del 2014, in particolare, l'ex Presidente ha chiesto al Congresso di stanziare 3,7 miliardi di dollari per bloccare il flusso migratorio (specialmente di minori) dal Centro America, in primis dal Messico.

Bill Clinton e il muro 
Quello stesso Messico che Trump ha promesso di chiudere definitivamente dietro a un muro, suscitando l'indignazione del mondo intero. Peccato che quell'opera pubblica fu inizialmente promossa, in realtà, da un altro Presidente democratico: Bill Clinton. Il quale non viene (ingiustamente) ricordato per il discorso sullo Stato dell'Unione, nel quale annunciò con queste parole le misure restrittive dell'immigrazione che gli Usa avrebbero adottato lungo la propria frontiera meridionale: «Siamo una nazione di immigrati .. ma siamo anche una nazione di leggi. […] La nostra nazione è giustamente infastidita dal gran numero di immigrati clandestini che entrano nostro Paese. Gli immigrati clandestini prendono posti di lavoro che appartengono a cittadini o immigrati legali. E rappresentano oneri per i contribuenti […]. Questo è il motivo per cui stiamo raddoppiando il numero delle forze dell'ordine alla frontiera, deportando gli immigrati clandestini più che mai. Colpiremo le assunzioni illegali dei clandestini e faremo di più per accelerare l'espulsione dei criminali. E' sbagliato e in definitiva controproducente per una nazione di immigrati permettere questo abuso delle nostre leggi sull'immigrazione che si è verificato negli ultimi anni. E dobbiamo fare di più per fermarlo». Un discorso che suscitò un'autentica ovazione. Forse, viene da chiedersi, perché a parlare non era il «rivoltante» e provocatorio tycoon?