Se l'unica, vera ragione per cui Obama manda truppe in Siria è... Putin
La decisione della Casa Bianca di inviare 50 commando delle forze speciali in Siria segna una svolta evidente nella strategia americana. Ma che cosa (o chi) si nasconde dietro a questa scelta?
WASHINGTON – La crisi siriana è ormai al centro delle cronache internazionali da mesi, il teatro in cui i principali attori geopolitici si scontrano. Notizia delle ultime ore, l’improvviso cambio di strategia della Casa Bianca, che nei giorni scorsi ha ordinato il dispiegamento immediato di 50 commando delle forze speciali sul terreno, i primi soldati statunitensi ad essere stazionati in permanenza sul campo di battaglia. Il compito ufficiale sarà una missione «advise and assist», fatta cioè di consiglieri militari e assistenza alle operazioni di milizie locali nel Nordest del Paese; eppure, il mondo si è subito chiesto se, per la prima volta da quattro anni a questa parte, gli americani non avessero deciso di scendere personalmente in campo contro lo Stato islamico. Sebbene questa eventualità sia stata prontamente smentita dalla Casa Bianca – i militari, pare, non saranno in prima linea contro i jihadisti – la mossa di Obama rimane senza precedenti. E ci induce a chiederci da che cosa (o da chi) sia stata causata.
L’improvvisa svolta
Perché in effetti, dopo anni di indecisione e timidezza, il Pentagono sembra essersi reso improvvisamente conto della necessità di mostrare i «muscoli» in quel complesso e sanguinoso teatro di guerra. Innanzitutto, l’amministrazione ha accresciuto la presenza aerea americana, con l’intenzione di rafforzare bombardamenti e attacchi contro postazioni e roccaforti economiche e militari dell'Isis. Nuovi caccia F-15 e A-10 sono stati trasferiti alla base dell'aviazione di Incirlik nella Turchia meridionale. In più, Obama ha dato l’autorizzazione per creare, con il governo iracheno, una nuova task force delle forze speciali a Baghdad per azioni più aggressive contro gli estremisti islamici che hanno occupato regioni del Paese. Infine, il Pentagono fornirà informazioni di intelligence all’aviazione giordana per identificare i target dell’Is da colpire. Così, i 50 commando sul terreno non fanno che completare il quadro di un (improvviso) sempre maggiore impegno americano in terra siriana.
Che cosa (o chi) c’è dietro
A voler indagare il motivo di una tale «svolta strategica», ci si accorgerà che questo ha un nome e un cognome: Vladimir Putin. Come nota David Rothkopf su Foreign Policy, si potrebbe semplicisticamente tradurre quanto accaduto con un’affermazione molto semplice: «Vladimir Putin ha schierato truppe americane in combattimento in Siria venerdì scorso». E’ ovvio che questa versione non sia stata quella ufficiale data dal portavoce della Casa Bianca, ed è totalmente aliena dal linguaggio della diplomazia internazionale. Ma è altrettanto chiaro che se Putin non avesse fatto le sue mosse, entrando a gamba tesa nel conflitto siriano, gli Stati Uniti non si sarebbero sentiti costretti a cambiare la propria strategia. La dimostrazione risiede negli scorsi tre anni, periodo in cui i consiglieri del presidente Usa non sono stati in grado di condurlo a un’azione più decisa in quel teatro di guerra, che nel frattempo è diventato sempre più sanguinoso e pregno di conseguenze.
L’influenza di Mosca
Il decisionismo di Putin in Siria, come recentemente osservato anche dall’emissario Onu per la Siria Staffan De Mistura, ha evidentemente cambiato il corso degli eventi. E non solo perché è riuscito a «riabilitare» a livello internazionale la figura di Bashar al Assad, mostrando a tutti come escluderlo dalla transizione sarebbe stato impossibile. Ma soprattutto perché ha costretto la superpotenza americana a fare i conti con il fallimento della propria strategia – armare e sostenere i ribelli cosiddetti «moderati» contro il «tiranno» –, fallimento a cui Mosca, scegliendo come obiettivi delle bombe non soltanto l’Isis ma anche l’opposizione ad Assad, ha negli ultimi tempi decisamente contribuito.
Ragioni politiche
Non solo. Il fatto che dietro alla decisione di Obama ci sia Putin è dimostrato da un altro «particolare». Come ben enuncia Foreign Policy, quando viene lanciata un’azione militare troppo modesta per poter raggiungere un obiettivo strategico (come in questo caso), è chiaro che esiste un obiettivo politico ad incentivarla. In questo caso, l’obiettivo politico di Obama è quello di cancellare la percezione dell’inazione americana, a fronte dell’indiscusso protagonismo russo. In più, la svolta conferisce credibilità al ruolo degli Usa nei colloqui di Vienna a proposito del futuro del Paese. La discesa in campo americana dimostra il coinvolgimento degli Stati Uniti nella questione, e suggerisce a Mosca che il conflitto potrebbe evolvere in modo diverso rispetto a come i russi si sarebbero attesi.
L’azione è reazione? Non per un leader
Del resto, se davvero, come sostiene Rothkopf, il mondo della geopolitica è prima di tutto «spettacolo», per esso vale la regola aurea secondo cui «l’azione è reazione». Ciò significa che i buoni attori, più che «anticipare» le emozioni del pubblico, devono modulare la propria performance rispetto a ciò che si trovano davanti: ed è proprio questo ciò che ha fatto Obama. Peccato che, però, nello scenario globale un buon leader deve essere in grado innanzitutto di condurre i giochi, anche influenzando le mosse dei rivali.Ecco perché, al di là di come la questione siriana si risolverà, di fronte all’inerzia americana gli analisti internazionali hanno già assegnato la palma della vittoria all’unico vero «leader» che spicca nel complesso e drammatico scenario mediorientale: Vladimir Putin.
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