29 marzo 2024
Aggiornato 15:30
La censura ha superato i confini nazionali

Proteste di piazza Tienanmen, la Cina punta alla globalizzazione del silenzio

A 26 anni dalle proteste di piazza Tienanmen, la Cina è sempre più persuasa della necessità di far dimenticare il 4 giugno 1989. Un silenzio comprato in cambio di affari, e imposto anche alla «democratica» rete; un silenzio globalizzato, ai tempi della globalizzazione dell'economia e della comunicazione

PECHINO – Il 4 giugno? Un giorno come un altro. Questo, almeno, hanno dimostrato 85 su 100 studenti universitari di Pechino, non riconoscendo la foto-simbolo della protesta di Tienanmen, mostrata loro dalla giornalista Louisa Lim. Louisa, vissuta in Cina per anni, è autrice del libro «La Repubblica popolare dell’Amnesia: Tienanmen rivisitata». Scriverlo è stata una battaglia: perché, per il governo cinese, Tienanmen è tabù, e chi ne parla dalla Cina sarà bandito.

Censura online e offline
In effetti, la repressione pare aver dato i suoi frutti. Il 26esimo anniversario delle proteste, in Cina, è trascorso sotto la coltre di una censura che, adeguandosi ai tempi, si è rovesciata sulla rete. Tra le parole vietate sono finite «oggi», «quell’anno», «giorno speciale», e varie combinazioni di cifre che potessero rimandare alla data incriminata. Ma quel che è peggio – sottolinea la Lim – è che il silenzio ha strabordato ben oltre i confini cinesi. «L’anno scorso, una multinazionale e uno Stato sovrano hanno rafforzato quel silenzio trasformando il diritto di parlare in una merce di scambio, al fine di salvaguardare i legami con la seconda economia del mondo». Silenzio in cambio di affari, insomma. Del resto, non molti giorni fa due importanti attivisti di Hong Kong sono stati banditi dalla Malaysia, perché intenzionati a parlare del 4 giugno. Anche in questo caso, affari.

L'importanza degli affari
Globalizzata l’economia e la comunicazione, si globalizza anche la censura. Addirittura LinkedIn ha accettato di bloccare contenuti connessi a Tienanmen in Cina. Il Ceo Jeff Weiner ha ammesso che l’estensione del social in Cina «solleva questioni difficili, ma ci è chiaro che la decisione di procedere è quella giusta». Nonostante tutto, il social dichiara di «supportare fermamente la libertà di espressione» e di disapprovare «ogni forma di censura governativa». Quando non ci sono di mezzo gli affari, verrebbe da dire.

Censura anche sui «lealisti»
La censura cinese si è estesa alle università americane. Ai più famosi studiosi di Tienanmen, tra cui Perry Link, Pechino ha rifiutato il visto. Non solo, il governo persegue tenacemente chi tenti di avvicinare giornalisti stranieri: come l’artista australiano Guo Jian, fermato ed espulso per aver rilasciato un’intervista al Financial Times. La censura cade anche su chi, il comportamento del governo, lo difende.  E’ bastato che un giornale cinese, in un editoriale, denunciasse una lettera aperta scritta da alcuni studenti cinesi attualmente all’estero, definendoli vittime di «lavaggio del cervello», perché il velo del silenzio cadesse anche sulla lealtà della testata. Lealtà controproducente: il solo cenno ai fatti del 4 giugno avrebbe potuto riaccendere la scintilla della memoria. Così, l’editoriale è stato rimosso.

Il rumore del silenzio
Per Louisa Lim, questo 4 giugno è trascorso in una drammatica «normalità», frutto di un permanente e criminale stato di repressione. Davanti alla censura capillare della rete, molti intellettuali e attivisti si sono semplicemente rifiutati di postare qualunque contenuto, in una silenziosa protesta al silenzio imposto. Eppure, l’effetto collaterale che la Cina non considera è che il silenzio diventi assordante. «Non preoccupatevi della dimenticanza», ha scritto l’importante regista Jia Zhanke«in fondo i censori cinesi ricordano»