24 aprile 2024
Aggiornato 06:30
La scatola nera della produzione industriale italiana

Perché l'Italia cresce meno degli altri paesi europei?

Se alziamo lo sguardo al di là dei confini nazionali ci accorgiamo che il tasso di crescita dell'Italia è molto più basso rispetto alla media europea, e fin dal lontano 1996. Ecco perché

ROMA – L'Istat ha pubblicato ai primi di settembre i dati sul Pil e sull'occupazione del secondo trimestre del 2015, e – con sommo sollievo del governo Renzi – le cose in Italia sembrano andare meglio del previsto. Tuttavia, se alziamo lo sguardo oltre i confini nazionali, ci rendiamo conto di essere i fanalini di coda dell'Europa per quanto riguarda il tasso di crescita nazionale. A cosa è dovuto questo ritardo e perché cresciamo molto meno degli altri paesi europei?

Cosa non torna nella crescita italiana
Nel secondo trimestre prosegue la crescita nazionale – ininterrotta da cinque trimestri – e mettiamo a segno un risultato importante con un aumento di 180 mila lavoratori. Finora il Pil è cresciuto dello 0,6% nel 2015, ma le previsioni ci dicono che raggiungerà lo 0,7%. Si tratta di dati positivi, soprattutto perché due trimestri consecutivi caratterizzati dal segno più non capitavano dal 2011. Tuttavia, c'è qualcosa che non torna. Se alziamo lo sguardo al di là dei confini nazionali ci accorgiamo che il tasso di crescita dell'Italia è più basso di molto rispetto alla media europea, e fin dal lontano 1996: la distanza inquietante che ci separa dagli altri paesi dell'UE nel periodo che va dal 1996 al 2014 raggiunge i 15 punti percentuali. Un ritardo significativo che non può passare inosservato e che chiama in causa la struttura produttiva del nostro paese. Infatti, come spiegavamo in un precedente articolo, se aumenta l'occupazione ma non aumenta il tasso di crescita del Pil necessariamente esiste un problema che ha a che fare con la produttività nazionale.

Il limite strutturale della produzione nostra industriale
Molti attribuiscono la bassa crescita del Pil alla carenza di domanda interna, ma – sebbene la crisi abbia duramente segnato i consumi nazionali – uno dei problemi fondamentali dell'economia italiana è che la produzione estera (le importazioni) di beni capitali sta silenziosamente fagocitando quella nazionale. E' un processo che affonda le sue radici in tempi lontani, ma le nostre industrie sono ad oggi l'anello debole della catena. La produzione industriale del Belpaese, infatti, tra il 2003 e il 2008 è cresciuta solo dello zero virgola, allontanandosi da quella tedesca di ben 18 punti percentuali. Perché? Verrebbe da pensare che la causa fondamentale di questa inefficienza possa essere ricercata in una carenza strutturale di investimenti (necessari per far fronte alla concorrenza del mercato), ma secondo numerosi studi quest'ipotesi sarebbe oltremodo lontana dalla realtà. Gli investimenti italiani sono stati sostanzialmente in linea con quelli europei nel periodo che va dal 2001 al 2007 e – sebbene abbiano registrato un calo vistoso durante la crisi dal 2008 al 2014 – non possono ritenersi responsabili in senso stretto del ritardo cronico e primordiale della (non) crescita italiana.

La risposta è nel rapporto tra spesa BERD e investimenti fissi lordi
Nel periodo di tempo considerato il rapporto investimenti-Pil, pur riducendosi significativamente, resta al di sopra della soglia limite del 18% e non è molto lontano da quello tedesco. Bisogna quindi, necessariamente, scavare più in profondità per spiegare il declino strutturale dell'Italia e provare a rispondere ai nostri interrogativi. Non è stata la riduzione degli investimenti a determinare il ritardo industriale nazionale, ma il fatto che il nostro sistema produttivo abbia perso per strada, negli anni, una parte significativa delle sue industrie: quelle che non riuscivano più a sopravvivere sul mercato comunitario a causa delle politiche di prezzo incompatibili con la loro struttura. Sarebbe stata necessaria una conversione della loro natura, una trasformazione che non è si mai concretizzata. Come ci suggerisce Roberto Romano nel suo articolo pubblicato su sbilanciamoci.info, basta osservare i dati europei del rapporto tra spesa BERD (ricerca e sviluppo delle imprese) e investimenti fissi lordi in relazione al Pil per rendersene conto: è l'intensità tecnologica degli investimenti il cuore del problema. E' proprio qui che l'Italia prende effettivamente le distanze dal resto dell'Europa diventandone il fanalino di coda: dal 2005 al 2013 l'intensità tecnologica degli investimenti passa nell'area euro dal 5,01% al 6,71%; in Italia dal 2,51% al 3,90%. In altre parole, le nostre imprese hanno sì investito per consolidare la produzione di beni di consumo, e quantitativamente gli investimenti sono stati in linea con le cifre continentali; ma hanno perso l'occasione di modificare la propria specializzazione produttiva rendendo necessaria l'importazione di beni capitali tecnologicamente più avanzati dall'estero. Le scelte qualitative hanno fatto la differenza. Alle nostre industrie serve un salto di qualità, quella trasformazione che finora è mancata. E non si tratta solo di risorse, per passare dal dire al fare, ma evidentemente anche del coraggio necessario per fare scelte imprenditoriali lungimiranti.