29 marzo 2024
Aggiornato 10:30
Dopo le riforme nel mercato del lavoro

Dietrofront del FMI: «La precarietà danneggia l'economia»

Vi spieghiamo perché il Jobs Act rischia di essere un buco nell'acqua

ROMA - Dopo il fallimento della (presunta) austerità espansiva, la Commissione Europea ha deciso di puntare su un altro cavallo di battaglia per cercare la vittoria sulla persistente crisi economica. La medicina da far mandare giù a forza agli stati membri dell’Ue è stavolta quella delle riforme strutturali e della deregolamentazione del mercato del lavoro, che però rischiano di sortire lo stesso effetto dell’austerità. Nullo, nel migliore dei casi.  

Dietrofront del FMI
L’Europa chiama e Matteo Renzi risponde. All’Italia è stato chiesto di aumentare la flessibilità del mercato del lavoro, in linea con gli altri standard europei, per rilanciare l’occupazione e l’economia nazionale, e il nostro governo ha fatto disciplinatamente i compiti a casa.  La diligente risposta del governo Renzi alla chiamata della Commissione Europea è stata il Jobs Act. Tutti contenti, dunque (tranne i lavoratori, s’intende), ma ecco che proprio il FMI – per il quale la deregolamentazione del mercato del lavoro è sempre stata la conditio sine qua non per l’assistenza finanziaria – ci lascia ancora una volta sbalorditi. Dopo l’ammissione di colpevolezza sul fallimento dell’austerity, nel World Economic Outlook dell’Aprile 2015, sostiene inoltre che non v’è alcuna evidenza circa un effetto positivo della flessibilità nel mercato del lavoro sul potenziale produttivo di un paese.

La via della flessibilità può diventare controproducente
Vi spieghiamo perché. Secondo il FMI una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro è un valore aggiunto solo se permette di aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo e l’impiego di una manodopera più qualificata. Altrimenti la «via bassa» alla flessibilità – cioè quella fondata esclusivamente sulla precarietà dei lavoratori e la riduzione dei loro diritti – si trasforma in un incentivo per le imprese a non innovare: perché anziché investire sulla ricerca, queste si accontentano di sostituire capitale e nuove tecnologie con manodopera a buon mercato per aumentare i loro profitti. Come sottolineano Guido Iodice e Daniela Palma nell’articolo pubblicato su Keynesblog.com, con la flessibilità si indebolisce quel vincolo interno che costringe le imprese a performare la produzione, invece di vivacchiare grazie all’abbattimento dei costi di produzione.

Il Jobs Act rischia di essere un buco nell’acqua
Questa strada, priva di prospettive di lungo periodo e lungimiranza, è un vicolo cieco. In un mondo globalizzato come il nostro, infatti, la concorrenza internazionale richiede – per sopravvivere alle dure leggi del mercato globale – di essere sempre più competitivi. Ed esistono solo due vie per farlo: ridurre i costi di produzione o aumentare l’efficienza e la produttività. La prima opzione è la più semplice, richiede poco tempo ma altissimi costi sociali. E’ quella del Jobs Act. L’altra è quella vincente: è una strategia di lungo termine, più onerosa per lo Stato e per le imprese, ma capace davvero di rilanciare l’economia nazionale. L’abbattimento dei costi di produzione – attraverso la riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori – equivale a una contrazione dei consumi e perciò a una riduzione della domanda interna. Così, l’unica alternativa per sostenere l’economia diventa quella di puntare sull’export, dove però la concorrenza richiede standard qualitativi elevati perché il paese risulti vincente. Ecco perché il Jobs Act rischia di essere un buco nell’acqua: perché se le imprese non scelgono di investire nella ricerca e nello sviluppo i profitti che scaturiscono dalle agevolazioni fiscali dei nuovi contratti di lavoro nazionali, il costo sociale pagato dai lavoratori sarà stato versato inutilmente. Ciò che serve all’Italia è soprattutto una visione di lungo periodo. Ringraziamo il FMI per la sua onestà intellettuale, ma sarebbe stato meglio se ce l’avesse spiegato prima dell’approvazione del Decreto Poletti.