1 giugno 2023
Aggiornato 14:30
Lavoro

La Corte Costituzionale boccia il 'cuore' del Jobs Act

Nel mirino la norma sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti nella parte in cui determina l'indennità spettante al lavoratore licenziato

Matteo Renzi durante 'Porta a Porta', Roma, 20 settembre 2018
Matteo Renzi durante 'Porta a Porta', Roma, 20 settembre 2018 Foto: ANSA/RICCARDO ANTIMIANI ANSA

ROMA - La norma sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti del Jobs Act è illegittima nella parte in cui determina in modo rigido l'indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. Lo ha stabilito la Corte costituzionale che ha dichiarato illegittime le disposizioni in materia contenute nell'articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n.23/2015, non modificate dal successivo Decreto legge n.87/2018, cosiddetto «Decreto dignità"». In particolare, la previsione di un'indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. Tutte le altre questioni relative ai licenziamenti sono state dichiarate inammissibili o infondate. 

Cosa prevede il Jobs Act
La riforma di Matteo Renzi che ha cambiato, di fatto, il diritto del lavoro stabiliva infatti come calcolare le indennità in caso di licenziamento illegittimo: «Il giudice (...) condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità». Di fatto, per il lavoratore licenziato in maniera ingiusta il Jobs act prevedeva un risarcimento di due mesi di stipendio per ogni anno di anzianità di servizio. Il tutto, entro un limite minimo (quattro mesi di stipendio) e massimo (ventiquattro mesi). 

Stop anche alle modifiche del Decreto dignità
Neanche il Decreto dignità esce indenne dalla decisione della Consulta. Il recente provvedimento del governo Conte, infatti, si è limitato a ritoccare il 'quantum' minimo e massimo degli indennizzi alzandoli da 6 a 36 mesi, ma non ha inciso sul meccanismo di determinazione, che è rimasto legato all'anzianità di servizio.

La questione sollevata dal Tribunale del Lavoro
La questione presso la Consulta era stata sollevata dal Tribunale del Lavoro di Roma per le problematiche legate al meccanismo di indennizzo. In particolare, secondo il Tribunale, il contrasto con la Costituzione non veniva ravvisato nell'eliminazione della «reintegra» in favore della monetizzazione del risarcimento, «quanto in ragione della disciplina concreta dell'indennità risarcitoria, destinata a sostituire il risarcimento in forma specifica, e della sua quantificazione».

La critiche a Renzi da sinistra
Con questo pronunciamento, di fatto, la Consulta ha confermato un principo che possiamo definire 'di base': licenziare senza causa un lavoratore assunto da un mese o da vent'anni non cambia, perché - come ha denunciato il segretario nazionale di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni di Liberi e uguali - «la dignità non è questione di anzianità». I principi di ragionevolezza e di uguaglianza chiamati in causa dalla Consulta - prosegue il leader di Si - «oltre al dettato costituzionale non sono optional. Solo il Pd poteva non rendersene conto». Ora «c'è solo una cosa da fare, e il M5s dovrebbe ascoltarci a differenza di quanto ha fatto nei mesi scorsi, serve ripristinare l'articolo 18 per tutte e tutti».