La Champions, la Fiat e il lavoro che se ne va: perché dobbiamo sperare che vinca la Juve
Dimentichiamo la dimensione sportiva, dimentichiamo l’aspetto romantico del calcio. Su di esso prevalgono, anche se sarebbe meglio dire prevaricano, i tanto noti quanto vasti aspetti economici

TORINO - Una partita immensamente più importante della finale di Champions League che si gioca a Cardiff, che vedrà impegnate la Juve appena laureatasi, per la sesta volta consecutiva, campione d’Italia, e il pluristellato Real Madrid, la squadra di Cristiano Ronaldo, l’uomo marchio diventato ormai celebre, e potente, come una multinazionale. Nella speranza, vana, che i pesi economici non incidano sull’esito sportivo della partita di calcio, è bene sottolineare che la finale di Champions avrà in ogni caso una ricaduta sull’Italia da un punto di vista sociale: per questa ragione, molto probabilmente, l’unica possibilità che abbiamo, come popolo italiano, è la speranza, il tifo magari è eccessivo, che vinca la Juventus. Dimentichiamo la dimensione sportiva, dimentichiamo l’aspetto romantico del calcio. Su di esso prevalgono, anche se sarebbe meglio dire "prevaricano", i tanto noti quanto vasti aspetti economici: su di essi si giocano, si perdoni il gioco di parole, le dinamiche sociali di intere nazioni.
Il Chelsea di Antonio Conte, ma soprattutto di Roman Abramovič
Tutti conoscono il Chelsea di Antonio Conte, ma soprattutto di Roman Abramovič, «l’oligarca invisibile». Quest’uomo, per molti aspetti sconosciuto, ha una caratteristica che lo differenzia da tutti gli altri oligarchi che hanno devastato e saccheggiato la Russia intenta a passare dal socialismo reale al capitalismo: è uno dei pochi che non è finito in galera, o peggio, sotto terra. Tra il 1992 e il 1995 ha fondato cinque diverse compagnie di import-export, specializzandosi nel settore del commercio del petrolio. Con Berezovskij, finito sotto due metri di terra nel 2013, ha dato vita alla Sibneft, un’azienda arrivata a valere più di 13 miliardi di dollari. Nel 2002, vedendo la pessima aria che tirava con la nuova presidenza di Putin, intenta a recuperare i gioielli regalati da Eltsin alla banda mafiosa conosciuta come "i magnifici sette", rivendette tutto a Gazprom, la grande azienda di stato: incassando tredici miliardi di dollari. L’anno successivo ha acquistato il Chelsea, squadra di calcio inglese, che grazie ad investimenti colossali è diventata una della società più importanti del pianeta, fornendo al facoltoso presidente una visibilità globale che gli ha ripulito l’immagine. Non è peregrino pensare che Roman Abramovič abbia macchinato questa operazione per avere salva la borsa e la vita, o quanto meno per non fare la fine di tutti gli altri suoi ex sodali. Una società come il Chelsea, anche se è un buco nero economico, con la sua potenza mediatica globale è stata un'ottima assicurazione sulla vita.
Milano, Asia
Un esempio, sui mille possibili, degli interessi che si muovono su un rettangolo verde coperto di erba. Cosa pensare poi dell’acquisto da parte di società partecipate da fondi di investimento asiatici o arabi, di importantissime società calcistiche italiane e non solo? Noi del Diario ne scrivemmo quando si capì a chi stava vendendo il Milan Silvio Berlusconi: allo stato cinese. Un processo inarrestabile, dovuto all’immensa fuga di capitale da ovest verso est. Fuga di capitali che depaupera le nostre società – in nome della globalizzazione economica – e arricchisce stati, intesi come apparati, che poi attraverso scatole cinesi finanziarie comprano a prezzi stracciati industrie, infrastrutture, marchi storici, e un po’ tutto ciò che desiderano. Una parte egemonica mediaticamente plaude questa lenta, e inarrestabile, spoliazione di ricchezza e cultura, definendo tale processo «investimenti dall’estero». Gli altri, la maggior parte, i cittadini che vedono crollare il livello di civiltà della società a causa di una sempre maggiore povertà, cominciano a pensare che dietro l’invasione di questi predoni globali si nasconda un viscido processo di conquista.
La Champions, la Fiat e la classe operaia
In Italia resistono la Juventus e il Napoli all’invasione. Inter, Milan e Roma sono di proprietà asiatiche o nord americane. Acquisti fatti, come nel caso delle due milanesi, grazie ad enormi trasferimenti di ricchezza dovuti proprio a delocalizzazioni di massa che hanno interessato il settore primario occidentale: quello che genera la ricchezza, che trasforma il capitale naturale in civiltà. La Juventus ha però una caratteristica peculiare: è la squadra della Fiat e quindi degli Agnelli. E’, a livello popolare, la squadra della classe operaia che dal sud Italia ha raggiunto le grandi città del nord in cerca di riscatto sociale: ma è soprattutto la squadra della grande borghesia industriale italiana. La sconfitta della Juve sarebbe un dispiacere sportivo, e quindi emotivo, per milioni di tifosi in Italia e nel mondo. Ma sarebbe un pericolo per l’assetto industriale, già traballante, legato all’industria dell’auto.
La Cenerentola del calcio?
La Juventus, guidata dall’ultimo discendente degli Agnelli, Andrea - che per altro naviga in pessime acque, e la cui vicenda professionale è legata mani e piedi alla finale di Champions - è una Cenerentola del calcio: vale la metà del Manchester United, ovvero 1,5 miliardi di euro. Ovviamente, la squadra di calcio più ricca, ma non la più vincente, è controllata da un nome famoso e uno famosissimo: l’uomo d’affari americano Malcom Glazer, attivo attraverso la società di investimento First Allied Corporation in diversi settori industriali. Ma soprattutto, con una quota di minoranza ma significativa, dalla Soros Fund Management LLC, la società di investimento fondata dal finanziere americano di origine ungherese George Soros. Ogni commento è, ovviamente, superfluo. In questo senso la struttura societaria della Juve rappresenta un modello di resistenza all’avanzata del capitalismo banditesco che connota i tempi recenti. per altro non molto dissimile dal saccheggio perpetrato dagli oligarchi nella Russia degli anni Novanta.
Tifare Juventus
Cosa accadrebbe se la Juventus perdesse la finale, e in generale si interrompesse il ciclo perpetuo di vittorie che caratterizza i tempi recenti? In poche parole: si affievolirebbe il residuo interesse degli Agnelli, anzi, di quel che rimane della famiglia Agnelli, perché oggi il potere è in mano agli Elkann, verso l’Italia e soprattutto verso gli investimenti in Italia. La Fiat da tempo si dibatte tra il desiderio di andarsene dall’Italia definitivamente, e una forte pressione dell’opinione pubblica – la politica è stata solo in grado di applaudire qualsiasi cosa decidesse la proprietà – che non dimentica le vite gettate, a centinaia di migliaia, dentro la grande fabbrica. La Juventus, come la Ferrari, ha avuto nei tempi recenti il ruolo di cerniera tra queste due spinte contrapposte. Un insieme composito, indubbiamente, che però ha salvato l’industria del paese dalla completa desertificazione. Abbandonate, voi ottimisti, il sogno del turismo e del cibo – il terziario avanzato – che sostituisce l’acciaio e la fabbrica: a meno che non si voglia procedere nella decrescita infelice che connota le ultime due decadi italiane.
Le conseguenze della vittoria
Una perdita di peso sportivo, economico, e culturale dettato dalla fine del ciclo della Juventus, porterebbe al progressivo indebolimento di un settore economico vitale per il paese. Non a caso, il tempo in cui la Fiat ha sofferto maggiormente, giungendo a un passo dallo sbaraccamento completo, ha coinciso con i guai della Juventus con la giustizia sportiva. Una vittoria, al contrario, rafforzerebbe la presenza e gli investimenti del Gruppo Fca in Italia: spiace scrivere questi concetti così brutalmente, ma è così. Non si rimane ciechi quindi, senza dubbio, di fronte al ricatto implicito di tale condizione: o vince sempre, o quasi sempre, la Juve – anche per mantenere un minimo le apparenze romantiche dello sport – oppure la Fiat se ne va, o viene venduta e con lei collassa definitivamente Torino e mezza Italia. Ma indubbiamente un Juventus forte rende più solido l’interesse economico del grande capitale: che oggi, in nome del sacro valore della globalizzazione, può decidere se stare in Italia o andarsene in virtù di una partita di calcio.