19 aprile 2024
Aggiornato 01:30
La posta in gioco a Tripoli e dintorni

Libia, Renzi pensa all'intervento ma nessuna guerra lampo

Sono escluse invasioni militari ed esibizioni muscolari. La parola d'ordine è prudenza, in attesa che la Libia recuperi la sua sovranità, si doti di un governo a Tripoli quanto più inclusivo possibile e legittimato a chiedere un contributo alla Comunità internazionale per la ricostruzione

ROMA - «Nessuna guerra lampo». Sono escluse invasioni militari ed esibizioni muscolari. La parola d'ordine è prudenza, in attesa che la Libia recuperi la sua sovranità, si doti di un governo a Tripoli quanto più inclusivo possibile e legittimato a chiedere un contributo alla Comunità internazionale per la ricostruzione e la stabilizzazione del Paese. Un processo che richiede tempo e che rinvia alle prossime settimane, se non mesi, la decisione che l'Italia e gli alleati dovranno prendere sulle modalità di intervento nel Paese africano: «nei prossimi giorni non accadrà nulla», hanno confermato ad Askanews fonti di governo. Pur ammettendo che è in corso da tempo la pianificazione di strategie e piani militari.

Le «fughe in avanti» degli alleati
Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni confermerà domani alle Camere la posizione italiana. Non ci sono accelerazioni da parte del governo di Roma, anche a fronte di fughe in avanti - non condivise - di alcuni alleati. Francia, Regno unito, Stati uniti hanno già messo «gli scarponi» sul terreno, sono presenti in Libia con gruppi di forze speciali, impegnati in operazioni antiterrorismo mirate. Non l'Italia: «In questo momento non c'è un solo militare italiano nel Paese». E non ci sarà, se non espressamente richiesto dal futuro esecutivo libico, che si spera possa insediarsi quanto prima grazie alla lunga e faticosa mediazione delle Nazioni unite. A questo proposito filtra un certo «ottimismo» negli ambienti del governo italiano, che lo considerano il primo - «ineludibile» - passo per ogni discorso futuro.

Pianificato da tempo un intervento
E' chiaro che gli Stati Maggiori sono impegnati da tempo nella pianificazione di un eventuale intervento. E non si tratta tanto di essere pronti e proiettabili in tempi rapidi, quanto della decisa volontà di scongiurare l'errore di un'azione militare senza una strategia del «dopo», come già avvenuto in occasione delle scelte compiute da alcuni alleati nel recente passato, contro il regime di Muammar Gheddafi.

Le richieste libiche
«In ogni occasione, che si tratti di una riunione internazionale, di un incontro bilaterale o di una conversazione telefonica», dalle diverse parti libiche è arrivata «la richiesta di una presenza discreta», non massiccia, in territorio libico. Questo esclude un impegno «sul modello della missione Nato in Afghanistan», ha riferito una fonte qualificata. «Chiedono assistenza al processo di ricostruzione del Paese con l'invio di tecnici, ingegneri, medici, addestramento delle forze di sicurezza, protezione dei siti sensibili, aiuti umanitari. Infine, armi, munizioni e sostegno logistico» per il contrasto alla minaccia jihadista e dell'Isis.

Le ipotesi sul tavolo
La principale opzione, l'unica ritenuta al momento percorribile, è quella di un impegno per la stabilizzazione del Paese. La pianificazione, in fase avanzata, è stata compiuta in coordinamento con gli alleati. La missione (Liam) avrebbe il suo fulcro nella formazione e addestramento delle forze di sicurezza locali, ma anche nella messa in sicurezza di alcune infrastrutture, porti, aeroporti, impianti petroliferi. Un impegno che necessita non solo dell'esplicita richiesta del governo libico, ma anche della chiara individuazione del personale da addestrare. Al momento - fanno notare alcune fonti - ci sono in Libia circa 200.000 uomini armati, parte dei quali affiliati all'Isis. Occorre sapere quante e quali fazioni saranno parte del progetto, deporranno le armi, entreranno nella sfera di controllo del nuove, legittime autorità.

Il capitolo «energia»
Di particolare interesse per l'Italia sarebbe, ovviamente, la protezione dei campi energetici, soprattutto quello di Mellitah, dov'è presente l'Eni, da cui parte anche il gasdotto Greenstream, che porta il gas naturale fino a Gela, in Sicilia. Se ci sarà un'esplicita richiesta di assistenza nella lotta al terrorismo, l'Italia farà la sua parte con un contingente ristretto, di forze speciali, in coordinamento con l'intelligence già impegnata sul terreno con tre squadre di 12 uomini ciascuna. Un dispiegamento - quello delle forze speciali - che, tuttavia, non è al momento considerato all'ordine del giorno.

Il contributo italiano
L'operazione internazionale dovrebbe contare, complessivamente, su 7.000/8.000 uomini: il 30% saranno italiani, con un impegno tra le 2.100 e le 2.500 unità. La Brigata bersaglieri Garibaldi e il Reggimento paracadutisti Folgore, al momento, non sono operativi e potrebbero fornire parte del contingente. Possibile l'invio anche dei Carabinieri del Tuscania e, in caso di richiesta di forze speciali in funzione anti-Isis, di unità del Nono reggimento d'assalto paracadutisti Col Moschin e del Comando Subacquei e Incursori (Comsubin) della Marina militare. L'assistenza aerea sarebbe garantita dai caccia Amx - quattro di questi velivoli sono già stati rischierati a Trapani, pronti a ogni evenienza -, e dagli aerei senza pilota Predator: alcuni esemplari sono fermi alla base di Sigonella, altri sono già impegnati in attività di sorveglianza e ricognizione al largo delle coste libiche per il contrasto ai trafficanti di esseri umani (in coordinamento e a supporto degli assetti navali dell'operazione Sofia).

All'Italia il comando delle operazioni, ma non ci sarà Paolo Serra
L'Italia avrà il comando delle operazioni. «Non sarà affidato però al generale Paolo Serra», il cui nome è circolato in questi giorni. Fonti dello Stato maggiore della Difesa lo escludono categoricamente. «Ha già un incarico di elevato prestigio, molto delicato e importante», hanno sottolineato, alludendo al suo ruolo di consigliere militare dell'inviato Onu per la Libia Martin Kobler. Secondo quanto appreso da Askanews, un candidato con buone possibilità sarebbe l'attuale comandate della missione in Libano (Unifil), generale Luciano Portolano.

La polemica
Certamente, l'impegno italiano «non sarà nell'ordine dei 5.000 uomini di cui si è parlato in questi giorni» e a cui ha fatto riferimento anche l'ambasciatore statunitense a Roma, John Phillips. «Una vergogna, un'ingerenza inaccettabile» - così l'hanno definita ad Askanews alcune fonti di governo -, pur figlia della «avventata» richiesta di un comando italiano dell'eventuale missione in Libia. Al di là delle dichiarazioni ufficiali di totale sostegno a questa ipotesi, gli alleati - è il ragionamento - ritengono infatti che una richiesta di comando sia pienamente legittima se si è totalmente impegnati nell'operazione. Questo significa, ad esempio, non avere alcuna preclusione al ricorso alla propria potenza di fuoco. Una rivendicazione, quindi, più difficile da giustificare solo con una migliore conoscenza, una prossimità territoriale e tradizionali rapporti bilaterali con la Libia.

La frenata americana
Nella giornata di ieri, comunque, è arrivata la frenata dell'alleato statunitense. «Ho semplicemente detto che l'Italia ha pubblicamente indicato la sua volontà di inviare circa cinquemila italiani», ha precisato l'ambasciatore in una nota, facendo riferimento a una recente intervista del ministro della Difesa Roberta Pinotti. «Per quanto riguarda la preparazione e la tempistica, si tratta di decisioni che non sono state ancora prese», ma «non si è trattato affatto di un suggerimento o di una raccomandazione da parte degli Stati Uniti» all'Italia.