28 marzo 2023
Aggiornato 03:30
Gli Usa attaccano la Russia, ma la realtà è un'altra

Siria, la tregua è fallita. Come voleva Washington

I media mainstream hanno parlato dell'attacco sferrato da siriani e russi a un convoglio umanitario. Ma la realtà è che la tregua era finita molto prima. E non per colpa di Putin o Assad

ALEPPO - Sembrava un risultato diplomatico storico, una di quelle «buone notizie» che rompono la regola aurea del giornalismo secondo cui «good news is no news» («una buona notizia non fa notizia»): perché la tregua di una settimana promulgata da Washington e Mosca in Siria avrebbe potuto davvero preludere a un grande passo in avanti nella risoluzione politica del conflitto e nella lotta contro lo Stato islamico. E invece, la tregua si è conclusa nel peggiore dei modi. Ve lo abbiamo già raccontato: a poche ore dallo scadere del cessate il fuoco, gli Stati Uniti hanno bombardato l'esercito siriano, dicono loro, per «errore», uccidendo 62 soldati siriani e causando un centinaio di feriti. 

Il fatale «errore» di Washington
Una notizia talmente clamorosa che anche i media occidentali hanno dovuto riportarla, ovviamente dando rilievo alle scuse di Washington per quell'attacco «non intenzionale» che ha messo seriamente a rischio la tregua. Ma cos'è successo davvero? O meglio, che cosa sta succedendo in Siria? Partiamo dalle conseguenze più concrete di quello scellerato bombardamento: l'area in questione (l’altura di Jabal Tharda, che guarda sull’aeroporto di Der Ezzor) è finita nuovamente nelle mani dello Stato Islamico. Che poi sarebbe dovuto essere il principale obiettivo della inedita cooperazione tra Russia e Stati Uniti. Dal canto suo, Mosca ha richiesto una riunione d'emergenza del Consiglio di Sicurezza ONU; richiesta non ben accolta da Washington, che l'ha definita «uno stratagemma, una manovra diversiva, una richiesta cinica e ipocrita». La controreplica di Mosca è servita su un piatto d'argento: «Un tentativo di dirottare l’accordo di cooperazione tra Mosca e Washington», ha detto l’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, riferendosi al bombardamento americano. Ma ancora, nella notte pareva resistere la speranza che la tregua – e quindi la cooperazione tra Stati Uniti e Russia in funzione anti-terroristi – potesse in qualche modo reggere.

L'attacco che ha infranto le illusioni
La disillusione è giunta poche ore più tardi, quando un bombardamento attribuito dagli Usa ad Assad e Putin (attribuzione smentita da Mosca) ha distrutto un convoglio umanitario di 31 camion – risultato di un lungo processo di negoziazione con le autorità –, portando alla morte di una ventina di persone. Un fatto di certo deprecabile, oltre che per i suoi risvolti sui civili, anche perché ha fatto definitivamente sfumare ogni speranza. Questa notizia è stata immediatamente ripresa in coro dai media occidentali. Che hanno fatto intendere che il deterioramento dell'accordo sia responsabilità di Mosca e Damasco. In realtà, non solo non ci sono prove che l'attacco sia imputabile al regime siriano, ma la Russia ha anche fatto sapere che la fine del «regime di calma» deciso dal governo di Assad era stato provocato da un attacco sferrato dalle opposizioni, che già nel pomeriggio avevano dichiarato la tregua «clinicamente morta». Tuttavia, dagli Usa sono subito partite le accuse. Da un pulpito che mai come ora appare decisamente ipocrita e inadeguato.

La doppia morale di Washington: intanto, in Afghanistan...
Che gli Stati Uniti siano soliti affidarsi alla morale dei «due pesi» e delle «due misure» è quantomai evidente, e non solo per il bombardamento ai danni dell’esercito siriano. Mentre in Siria la tregua tanto sudata si estingueva in modo tanto miserabile, infatti, in Afghanistan gli Usa sferravano un attacco che ha portato alla morte di 8 poliziotti. La giustificazione, abbastanza lacunosa, era che il target rappresentava un «rischio per la sicurezza delle forze statunitensi». Quando però lo stesso argomento viene usato da Assad o da Mosca, Washington non lo ritiene parimenti legittimo. Ed è dunque più che lecito chiedersi una volta di più a che gioco stiano giocando gli Stati Uniti in Siria.

La strategia dell'ex direttore della CIA
Una risposta l’ha già fornita lo scorso 9 agosto l’ex direttore della CIA Michael Morell, in un’intervista alla Fox dove ha riassunto senza troppi giri di parole la strategia da tenere, secondo lui, in Siria. A suo avviso, sarebbe stato necessario far pagare «un grosso prezzo» a Putin e Assad, anche uccidendo  soldati russi e siriani; «spaventare Assad», colpendo la sua guardia nazionale; «bombardare i suoi uffici nel cuore della notte».  Morell non le ha mandate a dire: il piano, per lui, avrebbe dovuto contemplare anche l’uccisione, perpetrata «di nascosto», di russi e iraniani. «Proprio come abbiamo fatto pagare un prezzo ai russi in Afghanistan», ha aggiunto, evocando la guerra del 1978 . «Aiutando i mujaheddin?», ha chiesto l’intervistatore. «Esattamente», ha risposto Morell. Dichiarazioni che, con il senno di poi, è difficile non ricollegare a quanto accaduto in queste ore.

I segnali c'erano già
Ma anche non volendo compiere un collegamento tanto avventato, i segnali che la tregua difficilmente avrebbe retto alle ambiguità di Washington c’erano tutti. Abbiamo già parlato delle clamorose divisioni interne all’amministrazione Obama sulla questione siriana, culminate (e questo l’ha certificato anche la narrativa ufficiale del New York Times) nelle ultime resistenze del Pentagono e del suo leader Ashton Carter a collaborare con la Russia. Una contrarietà manifestata esplicitamente ai media, con diversi gallonati (in primis Philip Breedlove, già comandante supremo delle forze Nato) pronti a ostentare  scetticismo sull’accordo. Un caso di insubordinazione bello e buono, dietro al quale, però,  potrebbe esserci di più.

Le intenzioni di Washington
C’è infatti chi sostiene che si trattasse fin da subito di un vero e proprio «gioco delle parti»: nessuna vera divisione tra Dipartimento di Stato e Pentagono, insomma, ma mera tecnica. Non a caso il primo non avrebbe mai pubblicato i termini dell’accordo, né si sarebbe mai realmente impegnato a separare – come promesso – i ribelli «moderati» dai terroristi. La volontà sarebbe stata fin da subito quella di far fallire la tregua,  e nel contempo di approfittarne per sferrare un colpo ai «veri» nemici. E preparando il terreno a nuove, future mosse. Difficile – aggiungiamo noi – non guardare oltre, alle elezioni di novembre, con la candidata sorretta dall’establishment, Hillary Clinton, che non ha mai nascosto di voler creare una no-fly zone sulla Siria in funzione anti-Assad. Una mossa che porterebbe ad ufficializzare su quel terreno lo scontro con Mosca. Ad oggi, una cosa rimane certa: se la tregua è fallita, checché ne dicano i media occidentali, gli Stati Uniti hanno la loro buona fetta di responsabilità. E probabilmente, come vedete, anche molto di più.