20 aprile 2024
Aggiornato 02:30
Paura per l'epidemia

Ebola in Sierra Leone, a Freetown chiusi luoghi di aggregazione

Lo ha raccontato Nicola Orsini, da anni impegnato in Sierra Leone per la ong italiana Fondazione AVSI, sull'epidemia di Ebola che ha raggiunto la capitale dopo che sembrava che i contagi fossero circoscritti alle regioni orientali di Kenema e Kailahun.

FREETOWN - «Il governo ha chiuso i teatri, i cinema, i bar, tutti i luoghi di aggregazione, e ha rimandato a fine agosto gli esami pubblici di terza media previsti a luglio. La tensione comincia a sentirsi anche qui a Freetown», ha raccontato Nicola Orsini, da anni impegnato in Sierra Leone per la ong italiana Fondazione Avsi, sull'epidemia di Ebola che ha raggiunto la capitale dopo che sembrava che i contagi fossero circoscritti alle regioni orientali di Kenema e Kailahun.

Da giugno il governo e la società civile hanno rafforzato le misure di prevenzione per fermare il contagio: oltre ai checkpoint per circoscrivere l'epidemia, i centri sanitari dedicati, sono i luoghi pubblici a essere stati oggetto delle misure precauzionali più severe. Nei supermercati i gestori invitano tutti i clienti a lavarsi le mani con acqua e cloro, l'unica sostanza in grado di uccidere il virus, messa a disposizione agli ingressi. Nelle chiese, durante le messe, sempre affollate in un paese con il 15% della popolazione cristiana, non ci si stringe più la mano: lo scambio di pace è stato sostituito da un inchino con la mano destra sul cuore, e il sacerdote dà l'eucarestia nelle mani e non più direttamente in bocca. Abitudini costrette a cambiare, segnali piccoli, ma che amplificano il senso di paura tra la popolazione.

Stando agli ultimi dati forniti oggi dal ministero della Sanità di Freetown, sono 489 i casi di Ebola accertati in Sierra Leone, di cui 159 mortali, mentre altri 121 pazienti sono sopravvissuti. E ieri è deceduto il medico «eroe» della lotta al virus, il dottor Omar Khan.

In Sierra Leone rimane però la diffidenza della popolazione a farsi curare dai centri nazionali, riporta l'ong Avsi. Sono ancora in molti a evitare di prendere contatto con i medici in caso di sintomi della malattia, a fuggire dagli ospedali non appena la diagnosi è confermata, a nascondere le persone infette nelle case e nei villaggi, aumentando così il rischio di contagio e la diffusione della malattia.

«Soprattutto nelle zone rurali e nei villaggi, la popolazione fatica a mettere da parte credenze e pratiche tradizionali, come quelle che riguardano la sepoltura dei cadaveri. E il virus ha un'alta probabilità di essere trasmesso anche da una persona deceduta», ha spiegato Nicola Orsini, oggi impegnato a sensibilizzare la popolazione del Sierra Leone sui rischi della malattia.

Inoltre, nella mentalità delle popolazioni rurali gli ospedali sono spesso percepiti come luoghi di morte e non di cura e dunque si preferisce far curare i propri cari dallo «stregone» locale. E' forse a partire da queste credenze che in alcune aree si è diffusa la voce che addirittura l'Ebola non esista e che sia solo un'invenzione del governo per far fuori oppositori politici e per attrarre i finanziamenti internazionali.

Al di là delle accuse al governo - il cui messaggio di allarme è stato definito dai media troppo intimidatorio - la diffusione del virus in Sierra Leone rende indispensabili le attività di sensibilizzazione tra la popolazione.

«Spesso la diffusione di messaggi informativi non basta - ha continuato Nicola Orsini - serve una presenza costante fra la gente, in grado di sfondare il muro della diffidenza e della paura. Questo è ciò che anche noi di Avsi insieme al partner locale Fhm, stiamo cercando di fare coinvolgendo il nostro staff locale in attività di informazione e sensibilizzazione delle comunità in cui vivono, rassicurando la popolazione sulle concrete possibilità di guarigione. Nel caso poi l'epidemia dovesse diffondersi nelle aree in cui operiamo, prepareremo lo staff a svolgere un'attività di 'contact tracing', cioè di individuazione delle persone con cui i malati sono entrati in contatto e che quindi potrebbero aver contratto la malattia».