26 aprile 2024
Aggiornato 05:00
La rivolta in Egitto

Le ultime ore del regime e il ruolo della Casa Bianca

Gli USA «scaricano» Mubarak dopo il suo discorso in tv nel quale il presidente egiziano non si è dimesso, prendendo in contropiede l'intero establishment della capitale Usa

NEW YORK - La benedizione di Barack Obama ai manifestanti egiziani e alla fine del regime di Hosni Mubarak chiude ventiquattr'ore tutte giocate tra Washington e il Cairo, dopo due settimane di crisi in cui la Casa Bianca era apparsa più volte in affanno rispetto agli eventi che si susseguivano in Egitto.
Le ore che hanno cambiato l'atteggiamento del governo Usa verso Hosni Mubarak sono cominciate giovedì sera a Washington, dopo il discorso televisivo nel quale il presidente egiziano non si è dimesso, prendendo in contropiede l'intero establishment della capitale Usa che invece dava per scontato fin dal mattino che il raìs se ne sarebbe andato. Persino il direttore della Cia, Leon Panetta, si era sbilanciato in parlamento dicendo che le dimissioni erano in arrivo.

Dopo il discorso di Mubarak la diplomazia egiziana si è affrettata a spiegare che anche senza dimissioni si trattava di un passo importante nella transizione alla democrazia. L'ambasciatore a Washington Sameh Shoukry ha chiamato la Casa Bianca, dice il New York Times, per spiegare che le parole in realtà poco chiare di Mubarak indicavano un trasferimento dei poteri al vice Omar Suleiman. Ma ormai era tardi per placare l'alleato americano.

Mentre Mubarak teneva il suo discorso in tv, Barack Obama stava tornando da una visita nel Michigan, pronto a sedersi con il suo Consiglio di sicurezza nazionale. Il comunicato uscito dalla riunione nella tarda sera di giovedì lasciava pochi dubbi: Quello che il governo egiziano sta facendo non basta più, erano le parole di Obama. Il popolo egiziano terrà duro e gli Stati Uniti gli saranno accanto.

Parole chiare a Mubarak, invitato indirettamente ma seccamente ad andarsene. Con però un problema: il vicepresidente Omar Suleiman, sul quale la Casa Bianca puntava per gestire la transizione, appariva ormai screditato per troppa vicinanza con l'ormai caduto in disgrazia Mubarak. E così nel caos egiziano restava una sola istituzione credibile per parlare con Washington: le forze armate.

Nella notte tra giovedì e venerdì il segretario alla Difesa Robert Gates chiama il suo omologo al Cairo, il maresciallo Mohammed Hussein Tantawi. Il Pentagono e i militari egiziani sono vicini da più di trent'anni, le visite sono frequenti, le forze armate egiziane sono equipaggiate con gli stessi F-16 e i carri Abrams del potente alleato. E mentre i due parlano esce un comunicato dal tono straordinario in cui le forze armate dicono senza mezzi termini che Mubarak ha parlato in tv senza la loro autorizzazione, e contro la loro volontà. E che anche il vicepresidente Omar Suleiman agiva contro i Generali.

Così non è una sorpresa a Washington quando al mattino di venerdì esce un altro comunicato delle forze armate, in cui si dice che i soldati non si opporranno alle «legittime domande del popolo». Mubarak ha capito il messaggio e vola a Sharm el Sheikh. Poche ore dopo, a metà giornata a Washington, Obama è in riunione nell'ufficio Ovale quando gli portano la notizia che aspettava: Mubarak si è dimesso. Un portavoce racconta che il presidente si precipita nell'ufficio dei suoi assistenti a guardare gli eventi al Cairo in televisione.
Alle tre del pomeriggio - le nove in Italia - Obama va in diretta televisiva. In sei minuti di discorso, riprendendo parole di Martin Luther King e Gandhi, chiude la crisi e apre al nuovo Egitto democratico: «Il popolo egiziano ha parlato», dice il presidente, «e ha cambiato il mondo».