Pensioni, Poletti e Padoan al lavoro per sbloccare il turn over
I ministri del Lavoro e dell'Economia, Giuliano Poletti e Pier Carlo Padoan, sono all'opera: riusciranno a sciogliere il nodo della flessibilità in uscita senza rompere i delicati equilibri del nostro sistema previdenziale?
ROMA – Il governo è al lavoro sulla riforma delle pensioni per consentire una maggiore flessibilità in uscita. L'annuncio è del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che riapre così un capitolo apparentemente accantonato. La questione è particolarmente cara al premier, Matteo Renzi, ma comporta due ordini di problemi: quello delle risorse economiche per realizzarla e quello dei rapporti con Bruxelles.
Poletti e Padoan al lavoro per la flessibilità in uscita
I ministri del Lavoro e dell'Economia, Giuliano Poletti e Pier Carlo Padoan, sono all'opera. «Stiamo lavorando sulla riforma delle pensioni. Sappiamo che c'è un aspetto da risolvere legato a uno scalino alto che blocca il turn over introdotto dalla Legge Fornero», ha dichiarato il primo dei due ministri, e il riferimento è all'innalzamento dell'età del pensionamento realizzato con la riforma del governo Monti. Infatti l'attuale requisito anagrafico per andare in pensione (66 anni e tre mesi, che diventeranno 66 e sette mesi nel 2016) blocca il turn over generazionale nelle aziende, impedendo ai giovani l'ingresso nel mondo del lavoro. Risolvere il nodo di cui parla Poletti, però, non sarà facile per almeno due ragioni: innanzitutto l'introduzione di una maggiore flessibilità in uscita non potrà essere a costo zero e il rischio è quello di scaricarlo sul sistema pensionistico e le generazioni future. Poi c'è Bruxelles, apertamente contraria all'alleggerimento della riforma Fornero, giudicata oltralpe la migliore d'Europa.
La proposta di Boeri
Da parte sua, il presidente dell'Inps, Tito Boeri, parteggia apertamente per l'aumento della flessibilità sostenendo che «sarebbe di aiuto per l'occupazione giovanile», e propone un calcolo completamente contributivo dell'assegno: a fronte di un costo pari a zero per le casse pubbliche si garantirebbero le risorse necessarie per l'operazione con la riduzione fino al 30% dei trattamenti pensionistici. L'altra proposta sul tavolo del governo Renzi – sono due - è invece quella che porta la firma di Cesare Damiano, presidente della commissione lavoro della Camera, e Pier Paolo Baretta, sottosegretario all'Economia: si tratta di anticipare l'età della pensione fino a 62 anni con una penalizzazione del 2% l'anno, ma in questo caso i costi della riforma destano non poca preoccupazione. Come anche i dati dell'Istat più recenti, dai quali emerge che in Italia la povertà assoluta è esattamente raddoppiata dal 2005 al 2014, perché le famiglie povere sono passate dal 3,6% al 5,7%: significa che il welfare non è stato in grado di proteggere i suoi cittadini dalle conseguenze della crisi economica e in particolare le categorie più deboli della popolazione.
I vizi intrinseci del sistema progressivo
Ecco allora che, se - come sostiene Boeri - «l’obiettivo primario dello stato sociale è quello di contenere la povertà assoluta» e allo stesso tempo quello di «assicurare chi vive al di sopra della soglia di povertà contro il rischio di forti contrazioni del suo reddito futuro», un intervento da parte del governo sembra urgente e necessario. Purtroppo però non sarà semplice sciogliere il nodo pensioni perché il sistema contributivo soffre di una contraddizione endogena: da un lato si fonda su un principio di equità (quella attuariale/assicurativa), dall'altro però non è in grado di realizzarlo concretamente perché la sua è una natura intrinsecamente regressiva. In primo luogo infatti i rendimenti che offre sono tanto più bassi quanto minore è il reddito del lavoratore: dopo circa 30 anni di contribuzione piena un individuo con un reddito di 1000 euro al mese arriva a maturare una pensione pari appena all’assegno sociale, cui avrebbe comunque diritto. E in secondo luogo la ragione è che i lavoratori più poveri e meno istruiti vivono tipicamente meno dei ricchi (ci sono studi conclamati al riguardo) perciò potranno godere della loro pensione per un numero di anni decisamente inferiore rispetto ad altre categorie sociali. Di equo, evidentemente – e non foss'altro che per queste due ragioni -, il sistema contributivo ha davvero poco. Ma l'unico modo per realizzare la flessibilità in uscita senza rompere i delicati equilibri del nostro sistema pensionistico è quello di calcolare gli assegni con metodo contributivo e in maniera corretta: per non scaricare i costi dell'operazione nel lungo periodo sulle generazioni successive in cambio di facili spot elettorali. Non sarà una cosa facile, come dicevamo, ma è l'unica strada da percorrere.
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